Ristampe di dischi seminali che diventano preziose quando arricchite con materiale inedito.
Ed è così per Mark Stewart And The Maffia, “Learning To Cope With Cowardice” (Mute Records), disco datato 1983, dall’indubbio valore storico, oggi pubblicato nuovamente con l’aggiunta di “The Lost Tape”.
Per sgombrare il campo da ogni dubbio, preciso da subito che per lo scrivente l’ideale lustro in musica è ricompreso tra il 1977 e (appunto) il 1983. Un quinquennio, questo, che ha saputo come pochi codificare e rielaborare, con equilibrata scomposta e ossessiva rabbia decadente, il fascino della liberazione musicale del ’68, con le cerebrali strutture della prima metà degli anni settanta, alleggerendole dalla zavorra di quell’elefantiasi musicale/narcisita che troppo spesso le caratterizzava.
Sperimentazione, abbattimento di generi, disagio industriale e post industriale, rabbia punk, elettrificazioni, echi di jazz e di free jazz, sono così confluiti in una fornace che ha fuso le esperienze del passato con le emozioni del presente, sia di matrice sociale che culturale.
E così è stato per Mark Stewart.
Se, infatti, il musicista inglese con i Pop Group aveva gettato solide e per certi versi definitive e totalizzanti basi di un punto musicale al contempo di arrivo e di partenza per le future generazioni, con l’album “Learning To Cope With Cowardice” si è spinto oltre, ruminando il suo linguaggio di sperimentazione e dilaniante alienazione post industriale.
Dissonanze, rumori, lancinanti spasmi, peristalsi ritmiche e risonanze trasformano stralci di “ordinario” funk, beat-box e dub in una splendida e totalizzante babele sonora metà umana e metà cibernetica.
E così, l’ossatura di “rassicuranti” fiati, giri di basso e cori di voci fanno da scheletro all’adiposa e grassa materia sonora che deforma la silhouette musicale in un bulimico abominio di depravazione da collage sonoro.
È come se Foetus avesse incontrato Frank Zappa su territori battuti dai Faust per la rappresentazione di un’opera teatrale da verfremdungseffekt.
Non da meno è “The Lost Tapes”, forse ancora più claustrofobico e “asfittico” per la sua “precaria” e non-definitiva lettura/rilettura dei brani madre, a volte afoni, a volte scarnificati di tessuto e rivestiti di nuova (inedita) primigenia materia.
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autore: Marco Sica