Five come i cinque album da loro registrati sin dagli esordi nel 2009 con To Lose my Life, e come la metà esatta dei loro anni di carriera, sin da quando, da Ealing, sobborgo di Londra, con il nome iniziale di Fear of Flying, Harry McVeigh (voce solista, chitarra ritmica, tastiere), Charles Cave (basso, cori e autore dei testi) e Jack Lawrence-Brown (batteria, mentre Tommy Bowen suona le tastiere solo nelle esibizioni dal vivo), hanno cominciato a dedicarsi alla loro passione musicale.
Il terzetto di Ealing sente evidentemente di essere arrivato a un momento importante della carriera ma anche della propria riflessione sul percorso fin qui compiuto. Altro che paura di volare, i White Lies hanno senza dubbio spiccato il volo dal 2009, prima grazie a due album d’esordio perfettamente concepiti, e piazzati nel pieno del revival anni ’80 e in particolare della New Wave, corrente a cui i White Lies forse ancor di più di altre band più famose (Interpol, Editors) si sono rigorosamente ispirati sin da sempre.
Poi, a metà cammino, un terzo album, Big TV, meno luminescente per quanto comunque in piena scia New Wave, e infine nel 2016 l’esplosione del loro sound con Friends, in assoluto l’album più eclatante dei White Lies (e tuttora il più bello), capace sin dal primo ascolto di catturare anche l’ascoltatore non proprio fan.
Cosa fare dunque? Proseguire sulla scia di Friends, e produrre un altro disco con sonorità immediatamente suadenti e avvincenti, ma col rischio di diventare commerciali, o fare qualcosa di diverso, cambiando completamente strada? Il saggio trio decide di mantenersi in equilibrio rispetto a queste due strade, e confeziona nove canzoni perfettamente divise a metà fra i suoni di Friends e nuove direzioni sonore, sempre, certamente, nel solco eighties e New Wave.
Scelgono di introdurre Five con Time to Give, prima traccia e primo singolo, probabilmente per mettere in prima fila il cambiamento: Time to Give infatti ha sonorità nuove, e soprattutto è molto più strumentale di quanto mai prodotto dai tre. Ben 7,35 minuti di musica suonata con poche parentesi cantate, e la musica non è di quella che il fan dei White Lies riconosce al primo colpo: accordi e trame più complessi, sfumature più cupe e contorte, con dissonanze ampiamente ostentate, tentativo insomma di superare la melodia che cattura e andare più a fondo, esplorando inquietudini sonore.
Come perfetto contraltare, Never Alone, con il suo preritornello in cantato che apre al refrain musicale, con il suo basso tambureggiante dove si inerpicano colpi singoli di tastiera, sembra dire subito dopo che i White Lies sono sempre loro, col loro sound inconfondibile, il più perfetto completo e rigoroso esempio di remake degli anni ’80 (A-ah, New Order) che si possa trovare di questi tempi. Poi di nuovo, due pezzi “sorprendenti”, Finish Line e Kick Me, più lenti, meno tastierati, più approfonditi e sinuosi, anche se Kick Me ha la grave colpa di scimmiottare in alcuni momenti Breathe dei Pink Floyd senza nemmeno nasconderlo tanto, visto che persino cori ed effetti sono identici. Finish Line invece inizia con una insolita chitarra acustica, stile ballad degli Editors (tuttora i più stretti cugini di sound fra le band in carriera), per poi defluire un attimo prima del ritornello in mini-confluenze progressive, quasi solo un accenno, che nulla toglie alla melodia facile del pezzo ma che si avverte, e fa la differenza.
Tokyo, Jo?, Denial e Believe It fanno, di nuovo, da contraltare, “rassicurando” i fan della prima ora: con quella loro tastiera sfacciatamente eighties, potrebbero essere tutti perfettamente pezzi di Friends, tanta è la consonanza sonora. Però a meglio ascoltare, qualcosa di diverso c’è, specialmente nel ritornello di Jo?, e questo qualcosa torna prepotente a conclusione del disco in Fire and Wings, ed è il suono pesante delle chitarre elettriche in vere e proprie sonore schitarrate, soluzione fino a qui nella discografia dei White Lies poco usata, a scapito dei riff di tastiera che definivano i pezzi.
In Time to Give, Kick Me e Fire and Wings si ha quasi l’impressione che i tre di Ealing vogliano allargare le loro influenze fino a spingersi a un recupero del progressive: se questo tentativo fallisce miseramente di fronte all’episodio di Kick Me, che si conclude con un quasi jazz alle tastiere dopo lunga scia musicale finale poco melodica e non del tutto ispirata, bisogna dire che Time to Give e Fire and Wings invece alimentano con la loro sonorità evoluta e intricata veramente tanto interesse.
I White Lies insomma sono ancora cresciuti, evoluti: hanno scelto di non scadere nella ripetizione-copia del loro album più immediato, bello, luccicante, cantabile, e pur non abbandonando il meglio di quella ispirazione lucente, che ritorna nella maggior parte dei pezzi di Five, in soli due anni e mezzo hanno confezionato nuove direzioni sonore, nuovi esperimenti di trame musicali, e hanno cercato di allargare i confini delle loro influenze.
Five è insomma un Friends Part Two, ma come se fosse un remake, scritto dopo molti molti anni, e con una visione retrospettiva, critica, e matura. E vogliosa di mettersi in gioco ancora, creando altro. Bravi davvero Harry, Charles e Jack, perché potevano campare sugli allori di un disco che li aveva finalmente portati a conoscenza del grande pubblico, e invece preferiscono rimanere nel perfetto limbo fra band di grande fama e piccolo ma brillante gruppo di nicchia.
L’album è in definitiva meno lucente, meno facile, meno esplosivo, leggermente più cerebrale e dunque un po’ più freddo del pop-rock splendente di Friends (al quale splendore delle sonorità facevano però da contraltare testi tutt’altro che radiosi, come anche in Five, ma questa è una caratteristica costante dei tre di Ealing), ma non perde perciò la sua capacità di “funzionare”, di colpire comunque subito con i suoi cavalli di battaglia immediatamente esplosivi. E’ però un disco più difficile, svolto a metà fra pezzi “soliti” (Tokyo, Believe It, Jo?, Denial, Never Alone), e pezzi più evoluti, a volte involuti, che “cercano” il progressive pur rimanendo al di qua di un vero e proprio cambio drammatico di stile.
Attualmente i White Lies non sono certo band da concerti planetari, ma hanno però anche finito di essere soltanto quelli che aprono i festival dove gli headliners sono altri. Il loro luogo di esibizione non è certo ancora lo stadio, ma nemmeno più il club londinese di avventori casuali. E oggi il pubblico va a sentire loro perché “vuole” loro e le loro canzoni.
E anche al PalaEstragon, sala più grande e attigua all’Estragon club a Bologna, unica data italiana l’11 marzo, potranno “accendere” i pezzi esplosivi del nuovo disco, insieme con quelli che sono ormai i loro cavalli di battaglia dei dischi vecchi, da To Lose my Life a Take it Out of Me, da Death a There Goes Our Love Again a Bigger Than us, Is Love, Farewell to the Fairground, che sono già un grosso repertorio di hit conosciute.
In questo senso, la tappa all’Estragon, sorta di palazzetto-tendone spazioso e ampio, in grado di contenere anche 2000 persone, è perfettamente significativa di dove si colloca, fino a qui, la loro evoluzione col quinto disco, dopo dieci anni, e probabilmente in piena metà, glielo auguriamo, del loro radioso destino musicale.
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autore: Francesco Postiglione