Cosa spinge Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) a formare un supergruppo, con l’ausilio di Alberto Ferrari dei Verdena e Marco Fasolo (Jennifer Gentle), per generare il progetto I Hate My Village? Voglia di rimettersi in gioco? Coincidenza d’intenti? O semplicemente il desiderio di formulare nuove alchimie musicali per esplorare altri mondi? Chissà…magari l’amore comune per l’Africa ha motivato i nostri eroi ad erigere il Villaggio in questione, affascinati dalla forte potenzialità stimolativa che l’afro-beat implementa (volenti o nolenti) nel cuore di molti musicisti, giacché mamma Africa ha partorito milioni di seguaci . Non credo che l’intenzionalità di questo progetto sia quello di essere un disco-manifesto ma, forse, un goloso invito verso le nuove generazioni, affinché non si lascino sfuggire l’occasione di arricchirsi tanto con le poliritmie echeggianti dal continente nero. Scelgono di partire con l’ipnotismo acid-funk della title-track, mentre l’aspro tribalismo ossessivo di “Presentiment” inghiotte in incubo claustrofobico, senza via d’uscita , finché l’avvento di “Acquaragia” riporta tutto su binari più percorribili, senza però mai distaccarsi troppo dalla stilizzazione fin qui intrapresa. In “Tramp” diminuisce leggermente la veemenza percussiva ma intensifica la cupezza di fondo, senza obliare sonorizzazioni stridenti scoccate con giusta enfasi.
I nove atti di “Tony Hawk of Ghana” risultano come una ricercata alchimia comune che inorgoglisce non solo i Nostri, ma rinfresca lo stagnante panorama musicale, consapevoli che la commistione risultante è del tutto inedita, Qui non c’entra la world-music, perché nel lotto è tangibile il segnale di una rivoluzione in atto , dell’ardimento sperimentativo, maturato in non so quante sessions. “Fare fuoco” concentra tutta l’essenza dell’afro-rock, con un’ancestralità ritualizzante che scuote muscoli ed anima. Dall’aspetto mansueto, la formula di “Fame” incastra persino risonanze orientaleggianti che attribuiscono al brano maggior fruibilità, mentre “I ate my village” intrinseca ritmia selvaggia che muta on the road per colpirci in modalità ammaliante. In ultimo, menzione particolare spetta alla cover-art, opera del disegnatore romano Scarful (specializzato in locandine per cannibal-movie). Un’immagine forte ed eloquente: un chiaro monito(r) a non farsi sopraffare da istinti malvagi ma, piuttosto, impegnarsi a ritrovare attimi di profonda e vicendevole conoscenza mentale. Quindi, nessun Villaggio da “odiare” o da “mangiare” (ecco il doppio senso fonetico di “Hate”), ma già sarebbe una gran cosa aborrire prevaricazioni d’ogni tipo. Auspicando lavori futuri, prendiamo atto che questo super-combo ha fornito indizi preziosi per allargare i nostri confini d’ascolto, con un ensamble che farà scattare parecchi pollici all’insù.
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autore: Max Casali