La scelta degli americani Low di rimanere focalizzati da 20 anni su di un classicismo folk pop limpido, cristallino, minore, provinciale, relativamente fuori dal tempo e capofila del così detto slowcore, cultura della lentezza in musica ma più ancora alla profondità, all’espressività, è estremamente affascinante perché in controtendenza e fuori da moda, cronaca metropolitana, politica, tecnologia, e malgrado il terzetto di Duluth, Minnesota, formato dai coniugi Mimi Parker (voce, batteria) ed Alan Sparhawk (voce, chitarra) e dalla nuova entrata Steve Garrington (basso, tastiera), appaia a prima vista rinchiuso in un’immobilità totale e nella ripetizione della propria formula, bisogna dire che la capacità di scrivere brani di indubbio spessore e pathos ha quasi del sensazionale.
I Low hanno sempre tenuto un profilo basso, ancor più di band simili come Lambchop, Silver Jews o Wilco, e l’hanno fatto nella musica come nella vita, incidendo i primi 3 dischi, tra i quali il fondamentale I could Live in Hope (1994), per una piccola label, poi qualche album per la Kranky rec. ed infine il passaggio alla Sub Pop, con il loro best seller intitolato The Grat Destroyer (2005) che arrivò nelle chart americane addirittura al tredicesimo posto.
In The Invisible Way ci sono i temi forti tipici delle canzoni dei Low, come l’invito a riflettere sui valori che davvero contano nella vita (‘Plastic Cup‘), poi la compassione, la responsabilità delle proprie azioni verso il prossimo ed il farsi carico dell’altro in difficoltà nell’indolente inno intitolato ‘Amethyst‘, tra le cose migliori dell’album, in cui spicca l’importante contributo di Steve Garrington al pianoforte; e qui è giusto precisare che Mimi Parker ed Alan Sparhawk sono una coppia mormone, che prova a portare avanti uno stile di vita dunque di un certo tipo, che inevitabilmente si riflette anche nella propria musica. Quando poi è Mimi Parker a cantare, tutto diventa ancor più incantevole; sia in cose più ritmate (‘So Blue‘ ascoltala) sia soprattutto nella lentezza (‘Holy Ghost‘).
Qualche bozzetto evanescente sul tempo 4/4 con batteria appena spazzolata ed accordi di pianoforte a portare il tempo, comunque per carità assolutamente riuscitissimo, tipo ‘Mother‘, ‘Waiting‘ e ‘Four Score‘, sembra magari un po’ troppo frutto del mestiere, inni scritti col pilota automatico della propria esperienza e magari il modello stilistico di Leonard Cohen troppo presente, mentre due parole in più è giusto e bello spenderle per la piccola, preziosa, conclusiva ‘To our Knees‘, di un’eleganza totale, che poi magari te la ritrovi sui titoli di coda di un film e stai lì a chiederti chi l’ha scritta, e che è un manifesto rappresentativo di cosa sono i Low.
Ancora: vanno a segno le più movimentate composizioni soul come ‘Clarence White‘, dal testo non tanto chiaro, la trascinante ‘Just Make it Stop‘ (ascoltala), ‘On my Own‘, dalla coda elettrica e ‘So Blue’.
The Invisible Way, prodotto da Jeff Tweedy (Wilco), continua a restituirci una band che sarebbe perfetta per il mainstream, e di cui rappresenta un oggetto del desiderio, ma se ne mantiene sistematicamente fuori non per spocchia o politica, ma per sincero disinteresse, tirando diritto per la propria strada.
http://chairkickers.com/
http://www.subpop.com/releases/low/full_lengths/the_invisible_way
autore: Fausto Turi