Giorni fa in chat con un carissimo amico commentavamo questo disco, lui diceva: “molto bello, ma “Undici” (il disco precedente G.C.) è inarrivabile” e io “ad un primo ascolto mi sembra molto buono e penso che tu abbia ragione. Qualche giorno dopo l’ho ascoltato con attenzione per preparare questa recensione e alla fine dell’ascolto riscrivo all’amico: “No, ritiro quello che ti ho scritto l’altro giorno, è stupendo! Insieme all’omonimo, a “Rojo” e a “Undici” è tra i migliori. Anzi è il migliore!!!”. Giusto per mettere le cose in chiaro, rispetto a quello che penso di queste venti canzoni.
C’è poco da fare Giorgio Canali, insieme agli ottimi sodali Rossofuoco, resta il miglior cantautore rock italiano. Se alcuni suoi amici, che lui ha contribuito a far crescere, hanno virato, legittimamente, verso lidi più rassicuranti (Zen Circus, Vasco Brondi), lui non ce la fa, ha ancora l’esigenza di graffiare e di mostrare le sue frustrazioni e le sue incazzature, anche se non sempre in modo estremamente aggressivo.
Da ottimo cantautore continua a porre la stessa attenzione tanto al sociale, quanto al personale. Questa citazione da anni ‘70 non è casuale, dato che il cantautore romagnolo quando ha iniziato a lavorare a questo disco, nato e realizzato in ‘smart working’ con un continuo scambio di spunti e idee con Rossofuoco durante il lockdown, omaggia i cantautori italiani che hanno dato il loro meglio in quegli anni.
In questi venti piccoli capolavori si nascondono molte citazioni di cantautori e su tutti De Gregori, artista preferito di Canali, che spesso cita Alice. Se la maggior parte dei brani, come negli ultimi lavori, ha la struttura della ballatona rock, non mancano momenti più serrati e dissacranti come la cinica “Inutile e irrilevante” che evoca i Clash di “White riot”, non tanto per la ritmica, quanto per il messaggio politico. Il testo, più di altri del passato, esprime il disincanto dell’autore verso coloro che negli ultimi anni si sono sentiti importanti e al servizio di organizzazioni che ora non servono più a chi li ha manovrati: dal credulone delle scie chimiche, al terrorista islamico, dal manifestante no global, all’infiltrato black block.
Per ogni canzone ci sarebbe da commentare e descrivere, analizzare moltissimo, per cui mi limito a citarne alcune. Le prime di queste sono la prima e l’ultima in tracklist, che sono in qualche modo l’alfa e l’omega di questo disco.
La generazionale “Eravamo noi”, nella quale Canali descrive gli ultimi quarant’anni dalle piazze in rivolta degli anni ‘70 tra eroina, pistole, paranoie distopiche, agli anni ‘80 dei banchieri impiccati, agli anni ‘90 delle monetine lanciati ai politici, al nuovo millennio dei vecchi di cinquant’anni in camicia nera, in cui comunque sono sempre gli altri ad essere più vecchi di lui.
Poi c’è “Rotolacampo”, musicalmente molto dylaniana, che nel testo e nell’intonazione, tra De Gregori e Guccini, diventa autobiografica: “quel vecchio di merda che ogni mattina allo specchio studia me”.
Canali poi commuove con la ballata degli sconfitti di “Wounded knee” parlando di Barbarossa contro i centri sociali, e ancora con la malinconica “Cartoline nere” si autocita parlando di pioggia (elemento spesso presente nei suoi testi) e di canzoni di merda come in “Meteo in cinque quarti” per poi lanciarsi in un trascinante rock didleyano in “Raptus”. Con “Come quando fuori non piove più” si lancia in una bellissima ballata con ottime chitarre e in “Canzone sdrucciola” si pone molti dubbi, tornando al sociale (chissà perché non passano mai di moda le svastiche…chissà perché ci sono molti fasci tra gli ex tossici).
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autore: Vittorio Lannutti