Era da bel po’ che John Lydon non faceva visita alla Capitale. Se la memoria non inganna, dalla tappa allo Stadio Olimpico del tour di reunion del 1996 dei Sex Pistols, dove, nei panni del suo alter ego “marcio”, incitava gli spettatori più riottosi a “essere originali, invece di lanciare oggetti sul palco, che non è punk”. Esempio emblematico di come l’energia dell’istrionico cantante abbia trovato sbocchi più confacenti nella creatività del suo progetto successivo, i Public Image Ltd, che non nella distruzione della band per cui è maggiormente noto.
Ora, in una giornata irrimediabilmente compromessa dalla notizia della dipartita di Lou Reed, giungiamo all’Atlantico sicuri che assisteremo a un concerto valido, memori dell’ottima performance del gruppo al Primavera Sound 2011. Okay, non sarà nei suoi anni d’oro, quelli con Keith Levene e Jah Wobble, ma il ritorno discografico dopo due decenni con il piacevolissimo This is P.I.L., ha dimostrato che la band è tutt’altro che fuori forma. Intanto, sul palco sovrastato dall’iconico logo degli headliner, si stanno esibendo i sempre più lanciati Soviet Soviet, alle prese con la presentazione delle tracce del loro nuovo album Fate (disponibile in anteprima allo stand). Con una grande presenza scenica e un’esecuzione caratterizzata da suoni nervosi e ruvidi, il trio marchigiano si conferma come una delle migliori realtà della penisola, destinato ad accrescere ulteriormente l’interesse internazionale che ha già conquistato, a partire dall’imminente tour negli USA.
Il cambio palco segna il passaggio dall’era più recente del post-punk alla prima, a riprova di quanto la musica e l’estetica della formazione londinese abbiano al giorno d’oggi ancora un’influenza altissima. Per appurarlo basta guardarsi tra il pubblico, che attraversa almeno tre generazioni di appassionati: si va da chi il vulcanico periodo musicale a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta l’ha vissuto in prima persona, a chi i P.I.L. magari li ha conosciuti proprio tramite i loro moderni debitori. Lydon si presenta vestito di bianco – maglia che recita “free dumb” e pantaloni a quadrettoni scozzesi – e brandendo una banana nella mano (e l’omaggio in salsa iconoclasta al frontman dei Velvet Underground è servito), seguito dai membri dell’attuale incarnazione del gruppo, ovvero l’irsuto Lu Edmonds (già in Mekons e Damned) alla chitarra, l’elegante Scott Firth (Elvis Costello, Spice Girls!) al basso e il vecchio volpone Bruce Smith (The Pop Group, The Slits, Björk) alla batteria.
Dopo un inizio relativamente innocuo con “Deeper Water”, l’intento dei quattro di non fare prigionieri è chiaro non appena partono le note di basso dell’odissea wave di “Albatross”, primo estratto da quell’album seminale per il post-tutto che fu Metal Box/Second Edition e dal quale la scaletta attinge a piene mani, dall’ipnotico dub di “Poptones” all’incalzante “Careering” fino a una micidiale “Death Disco” sulla cui furia chitarristica e ritmica, nonostante il caldo all’interno della tensostruttura, è impossibile non ballare. Tra un’immancabile (e anch’essa ballatissima) “This Is Not a Love Song” e la militante “Warrior”, la prima parte del concerto si chiude col pezzo che ha segnato la recente rinascita, “One Drop”.
Neanche il tempo di riprendere fiato che i bis si aprono con il travolgente inno “Public Image”, seguito da una “Rise” accolta dai cori di tutti i presenti. Infine, a chiusura di quasi due ore ricche di emozioni, c’è quella “Open Up” dei Leftfield che nel 1993, con Lydon alla voce, diede forma al flirt tra il punk e l’elettronica. Una perfetta conclusione per ricordare che la musica che vive per sempre travalica qualsiasi barriera, stilistica come generazionale.
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autore e foto: Daniele Mancino