Ci ho pensato e ripensato, ma non mi pare proprio che negli ultimi dodici mesi sia stato dato alle stampe un album più atteso di questo Room on fire. Ed è proprio l’attesa che negli anni si è coagulata intorno ai successori di opere importanti, di dischi che in qualche modo hanno significato un cambiamento nel modo di intendere il pop. “Ricordate la vita prima degli Strokes?” si domandava ironicamente un settimanale inglese qualche tempo fa. Non c’è dubbio che nel 2001 in un universo indie dominato da neo-acustici e post rockettari, il pulsare metropolitano di “Modern age” sia suonato un po’ come una chiamata alle armi per tutti coloro che aspettavano la riscossa di un rock più sanguigno e ipercinetico. Il look maudit e la sponsorizzazione delle riviste inglesi hanno fatto il resto e in breve quello degli Strokes è diventato il nome più cool da pronunciare ai party che contano. Sarebbe bastato questo per rendere arduo il preseguo della carriera di qualsiasi “next big thing”. Se poi aggiungiamo il fatto che i cinque newyorkesi non siano mai brillati per simpatia e che i loro performance dal vivo non si siano mai dimostrate indimenticabili, è facile comprendere quale fuoco di fila attendesse il gruppo al varco, pronto ad impallinarlo a suon stroncature.
E’ andata male! O bene, a seconda dei punti di vista!
“Room on fire” pur non discontandosi affatto da quegli elementi che hanno reso famoso “Is this it?”, risulta essere un album più solido e, presumibilmente, capace di durare più a lungo del suo predecessore.
Gli Strokes sono uno dei pochi gruppi che oggi è in grado di vantare un suono estremamente personale e riconoscibile. Che poi questo suono attinga a piene mani dalle nevrosi urbane dei Velvet Underground e dai riff ipnotici di Tom Verlaine è un altro discorso. Da questo punto di vista l’aver ceduto parte dell’urgenza del primo album a favore di composizioni più strutturate si dimostra una scelta azzeccata. Le trame si infittiscono e riff si incastrano fra di loro come le tessere di un mosaico, mentre la voce beffarda di Julian Casablancas emerge con la sicurezza di un crooner compassato. Molti sono i motivi che inducono ad ascolti ripetuti questo “Room On Fire”, fra tutti la filastrocca alcolica di “You Talk Way Too Much” e la melodia furbetta, con tanto di handclaps, del singolo “12:51”.
Uno dei grandi equivoci riguardo agli Strokes è stato quello di considerarli alla stregua di gruppi neo-garage. In realtà nella loro musica c’è la New York del CBGB’s dei mid-seventies centrifugata e resa digeribile per la Mtv generation, notoriamente non avezza agli sperimentalismi. Inutile sospirare guardando ai padri eccellenti, accontentiamoci della perfezione minimale di “Automatic Stop”, del contagioso pop in odor di reggae di “Between love and hate” e abbandoniamoci senza remore alla straripante frenesia di “The End Has No End”. Vi assicuro che non sarà un’operazione difficile.
Autore: Diego Ballani