“Quello che non ho è una camicia bianca
quello che non ho è un segreto in banca
quello che non ho sono le tue pistole
per conquistarmi il cielo per guadagnarmi il sole.”
Fabrizio De Andrè, Quello che non ho
Probabilmente, la gran parte di noi, oggi, avverte come prevalente ciò che non ha, rispetto a ciò che invece ha – si tratti di beni materiali, di sentimenti, o altro. Foss’anche solo un problema percettivo – e purtroppo molto spesso non lo è affatto – è comunque un elemento che caratterizza il ‘sentire’ di gran parte della popolazione, o almeno di quella parte che vive nell’area ‘ricca’ del pianeta. A questa sensazione di ‘privazione’, si aggiunge la convinzione – a sua volta in gran parte fondata – che il futuro non ci riservi un miglioramento, ma che anzi possiamo aspettarci un peggioramento delle condizioni di vita, materiali ed ‘immateriali’. La nostra vita – il suo livello ‘qualitativo’ – sta cambiando direzione: mentre per innumerevoli generazioni c’è stata la fondata speranza che il futuro fosse migliore, oggi prevale la fondata sensazione che sarà invece segnato da un arretramento. Ce lo dicono le statistiche, segnalando come la ‘mobilità sociale’ sia sempre più inesistente, come la ‘forbice’ tra ricchi e poveri si allarghi; ce lo dice la scienza, che segnala l’imminente punto di non ritorno sulla via del collasso dell’ecosistema planetario.
La sensazione di frustrazione che ne deriva, finisce con l’aggravare, sul piano psicologico, quel che consegue al peggioramento ‘reale’. Ma nessuno può sostenere una rabbia costante, anche se tutto causa rabbia. Abbiamo bisogno di speranza. Un disperato bisogno di speranza.
E se non riusciamo a trovarla in noi stessi (nella nostra quotidiana esperienza di vita), né tanto meno nel contesto sociale in cui ci troviamo, ci aggrapperemo a qualsiasi cosa ci venga ‘offerta’, da chiunque sia proposta, che indichi una via d’uscita, una speranza.
Per dirla in termini di marketing, si determina una situazione straordinariamente ottimale (per chi voglia ‘vendere’ speranza…), in quanto la ‘domanda’ è estremamente ampia e forte, mentre la risposta è assolutamente carente.
In questo contesto, anche un ‘prodotto’ scadente, anche un ‘venditore’ noto come magliaro, hanno alte probabilità di successo.
Quando un bisogno è psicologicamente forte, e non trova soddisfazione, la nostra capacità di analisi, di valutazione razionale, si abbassa al punto che arriviamo ad auto-ingannarci, pur di trovare una falsa o effimera soddisfazione. É questo un comportamento in realtà più abituale di quanto pensiamo. Di fronte alla complessità (di un problema, di una situazione…) tendiamo a sfuggire l’analisi, affidandoci a strategie euristiche (viene dal greco: heurískein vuol dire “trovare, scoprire”); si tratta di procedimenti mentali intuitivi, sbrigativi, con cui ci facciamo un’idea di qualcosa in fretta, senza fatica, come ad esempio gli stereotipi .
Se un procedimento mentale euristico costituisce una strategia sbrigativa, ma comunque fondata su una approssimativa ma prevalente esattezza, quando ci troviamo di fronte ad una situazione nuova, in cui non abbiamo riferimenti che ci consentano di identificare la strategia adatta, è forte il rischio di adottarne una del tutto inefficace, e che ci condurrà in un vicolo cieco.
Un’euristica inefficace, sballata, si definisce bias cognitivo. Bias è un termine inglese che deriva dal francese ‘biais’ (“obliquo, inclinato”), che a sua volta deriva dal latino e, prima ancora, dal greco epikársios, obliquo. In sostanza, una inclinazione, una predisposizione, un pregiudizio.
Insomma, convinzioni senza fondamento, ma coerenti con le nostre opinioni più profonde, diventano il metro su cui elaboriamo le nostre risposte.
Fondamentalmente, i bias cognitivi sono di cinque tipi.
Il confirmation bias, che ci spinge a ritenere veritiero ciò che è affine a quanto già crediamo vero, ed a respingere ciò che invece lo contraddice – indipendentemente dalla attendibilità della fonte.
L’illusion of control, che ci porta a sovrastimare la nostra capacità di influenzare gli eventi esterni, infondendoci una sicurezza immotivata.
L’overconfidence, è l’eccessiva fiducia nelle nostre valutazioni e nei nostri giudizi, che ci porta a credere che abbiamo informazioni più accurate e complete degli altri, e di quanto non siano realmente. Questo eccesso di fiducia è connesso con il cosiddetto ‘effetto Dunning Kruger’ (più le persone sono incompetenti, meno capiscono di esserlo).
Il gambler’s fallacy, o ‘fallacia dello scommettitore’, è un errore di logica. Ci fa ritenere che il verificarsi di un evento casuale sia influenzato dal verificarsi di un altro evento, altrettanto casuale. Nel gioco della roulette, ad esempio, l’idea che ‘uscirà’ il nero perché il rosso è già uscito.
Il bias blind spot, infine, è una sorta di meta-bias; in altre parole, consiste nel ritenere di esserne più immuni di chiunque altro.
La condizione in cui sentiamo prevalente “quello che non ho”, con tutto ciò che ne consegue, è il terreno fertilissimo in cui affondano le radici i nostri bias.
Alla nostra insicurezza, alla nostra incertezza, i bias offrono conforto; falso, ma che ci risulta credibile, e comunque ‘consolatorio’.
É un bias cognitivo che ci spinge a condividere una fake-news, anche se evidentemente incredibile, per il semplice fatto che – ad esempio – sia denigratoria nei confronti di qualcuno che avversiamo. O che, per converso, ci spinge a rifiutare qualsiasi argomentazione che contraddica una nostra convinzione profonda.
L’insicurezza è insomma la condizione psicologica in cui avviene la proliferazione dei bias.
Ma il problema non è solo che ci inducono a scelte errate. Il problema è che ci infilano in un cul-de-sac da cui è sempre più difficile uscire.
Se riusciamo a riflettere un attimo su ciò, possiamo sfuggire – foss’anche solo momentaneamente – alla trappola dei bias cognitivi, e renderci conto di quali siano le radici, le motivazioni di quanto ci sta accadendo intorno. Potremo capire più agevolmente cosa ci stia portando (come società, come soggetto collettivo) a taluni comportamenti che non hanno alcun fondamento, alcuna giustificazione razionale. A quel punto magari capiremo anche che, come dice Buckminster Fuller, “le cose non si cambiano mai combattendo l’esistente. Per cambiare qualcosa, costruite un nuovo modello che rende l’esistente obsoleto.”
autore: Enrico Tomaselli