Già si sapeva che Adam Green non doveva starci troppo con la testa. Uno di quelli che ha perso la chiave per il mondo e invece di farsi fare un doppione si è costruito un mondo alternativo, “con black jack e squillo di lusso” (cit. Bender).
Ma sono proprio queste regole, totalmente irregolari, sregolate e fuori dagli schemi che ci fanno amare smodatamente il signor Green: perché Adam è il tipo di amico che ti invita a casa per una semplice partita a playstation e a notte fonda invece vi ritrovate nella bisca di una società massonica che indossa panini al collo e costumi da cane gigante.
Insomma girava voce da un po’ di mesi, dal blog ufficiale dell’artista, che si stava lavorando per tirare fuori un film sperimentale. E questo film è arrivato. Sono settanta minuti di immagini in movimento, molte rubate qua e là dalle avventure su e giù dai palchi del suo ultimo tour europeo. Settanta minuti girati (God Save the Hipsters!) interamente con l’iphone.
The Wrong Ferrari non ha una trama precisa, ma assomiglia ad un videogioco in cui ogni quadro ha i suoi nemici, il suo sfondo, le gag del momento, l’obiettivo parziale da raggiungere, in attesa del mostro finale, che non deve arrivare per forza. Approcciarsi a questo film cercando di interpretarne la storia, penetrando attraverso lo slang newyorkese dei personaggi, collegando razionalmente una scena a quella successiva, è sicuramente il modo peggiore di goderselo.
Se la prima impressione rilascia il dubbio di non aver capito assolutamente nulla, la seconda impressione sarà la consapevolezza del fatto che forse il principio stesso del film è non avere senso alcuno.
Basta considerare i membri del cast. Se mai vi siete chiesti nella vita che fine avesse fatto il bambino di Mamma ho perso l’aereo dopo gli anni di depressione post celebrità, dentro e fuori la rehab e lo strizzacervelli, la risposta è presto detta: Macaulay Culkin è stato raccolto nella setta dada-surrealista di Adam Green, in compagnia di una serie di altri eroi sgangherati tra cui Devendra Banhart, Evan Dando (Lemonheads), Cory Kennedy (ragazzina hipster iperfotografata nelle festicciole indie di NY) alcuni membri dei Moldy Peaches e la stessa mamma di Adam.
Tutto ha inizio sul palco di un soundcheck in un locale vuoto: Adam Green sta cantando e ad un certo punto un tipo lo convince a seguirlo, c’è qualcuno di importante che vuole ingaggiarlo: Adam arriva nell’ufficio di questa casa discografica dove incontra il signorino Culkin e il cantante dei Lightspeed Champion rispettivamente vestiti da Mario e Luigi Bros. Cappellino, salopette e tutto. Da qui un’altra serie di situazioni totalmente scardinate fra loro, come la ricerca di una potentissima droga distribuita da un’infermiera porno in cambio di torture sessuali (e qui la scena inquietante di un Adam Green nudo che si fa ficcare su per il sedere un vibratore viola fosforescente).
Si tratta di un film che si segue non tanto per sapere come andrà a finire, ma dove andrà a finire. Fino a dove riusciranno a spingersi i nostri eroi. Se sopravviveranno tutti. Se, alla fine della storia, qualcuno di loro riuscirà a recuperare uno straccio di Sacro Graal con l’elisir della dignità ritrovata.
Di certo resta che Adam Green è l’ultimo dadaista di coda, così in ritardo rispetto ai primi dadaisti che oggi è perfino in anticipo. Arte e vita, nel musicista americano, non si scindono mai, finchè ogni singolo gesto resta relegato nella sfera del nonsense fanciullesco ed estetico, ma anche decisamente demenziale.
E se arte e vita sono la stessa cosa e il mezzo usato per girare questo film è lo stesso che Adam usa per rispondere a sua madre quando lo chiama a tavola, possiamo facilmente dedurre come Mr Green e la sua cricca impieghino le loro giornate, quando non sono in tour.
Autore: Olga Campofreda
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