Dopo il promettente e personale esordio omonimo del 2012 (da menzionare “Night Faces”, “Hollywood”, “Dreams” …), Jessica Pratt si conferma con “On Your Own Love Again” del 2015, in cui spiccano la splendida “Strange Melody” (degna dei Jefferson Airplane più acustici) oltre alle belle “Greycedes”, “Back Baby”, “On Your Own Love Again” … per un disco che esalta le particolari timbriche vocali della Pratt e le sue capacità di scrittura sospese tra il cantautorato e il folk.
Il 2019 è l’anno della svolta quando con “Quiet Signs” la Pratt, acquisita ormai la consapevolezza della forza della sua voce, vira verso più estatiche e rarefatte atmosfere (che tra i solchi evoca la Hope Sandoval dei Warm Inventions) come da subito testimonia il duo d’apertura “Opening Night”/“As The World Turns”; ed ancora, da citare, “Fare Thee Well” (con un finale per flauto dall’affascinante gusto retrò folk/progressive anni settanta), “Here My Love”, le sognanti “This Time Around” e “Crossing”, la “religiosa” “Silent Songs”, la meravigliosa “Aeroplane” (che è come aver preso quella perla di “Shark Ridden Waters” di Gruff Rhys e dai 45 giri averla portata a 33 e 1/3), per un disco nel complesso “perfetto” e perfettamente condensato nei suoi 27 minuti.
Ora, con “Here In The Pitch” (City Slang), la Pratt, pur conservando la durata contenuta in circa 27 minuti, amplia i propri orizzonti e le declinazioni della propria voce (qui più trasversale), introducendo anche sensibili alterazioni ritmiche e aprendosi a più assolate atmosfere come definisce il brano d’apertura “Life Is” o l’esatta ballata “Better Hate”, in cui dominano le variegate linee melodiche per uno dei momenti più alti dell’intero disco.
“World On A String” è un giusto ritorno al passato in cui emerge un maggior piglio che si risolve nella bella “Get Your Head Out”.
Chiude il Side a “By Hook Or By Crook” in cui fanno ingresso umori da jazz samba.
Il tempo di girare lato del vinile e con l’ottima “Nowhere It Was” emergono le gradite atmosfere dilatate, minimali e profonde.
Riuscita è la sognante “Empires Never Know”.
La strumentale “Glances” conduce alla più che compiuta “The Last Years” che congeda un lavoro discografico sicuramente meno astratto di “Quiet Signs” ma che si propone come sua valida dissimile alternativa. Da appuntare, infine, un saggio utilizzo degli strumenti che, sebbene presenti in quantità e varietà (mellotron, sax baritono, flauto, organo, batteria, percussioni, chitarra 12 corde, pianoforte, sintetizzatore …), suonano con misurata discrezione, oltre alla citazione contenuta nelle note di copertina “”The fact is that you feel like singing, and this is song that you know.” – L. Cohen”.
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