Avete mai avuto da bambini la tentazione, come dire, la prurigine di avventurarvi in un bosco, in una pineta o in una spiaggia troppo lontana da casa, di cui vi era negato l’acceso dai grandi? Se siete di quella schiatta da boy scout senza laccio al collo, di primo pelo e senza giuramento, diciamo scout mancati per noia o devozione, allora dovreste conoscere quella perturbazione sottocutanea che serpeggia mentre si oltrepassa l’orlo.
Ascoltando Isdiri misti sini di Penti, aka Marco Porcelli, si rimane sulla falsa riga di quel sentimento, un po’ come tornare fanciulli sotto la sottana di mammà per poi scappare alla prima torsione di schiena. Ecco che si indugia su un lieve prolasso, su una falda acquifera tenuta in argine o sulla scorta di una ingenuità del caso (Nina).
Intendiamoci, non stiamo parlando di uno che dalla mattina alla sera se la mena in nostalgiche peregrinazioni sufi con tutine strane, laccetti cerebrali e simboli di pace sparsi per l’addome consacrando santoni dell’India.
Isdiri misti sini mette subito giudizio nel cervello (esta feat. Francesca Copertino) salvo rilassarsi qua e là con giochi di penna e bordoni allungati (Bosk) e di prima battuta sembra riecheggiare una stesura da Sigur Ros. Quell’enigma che diventa verosimilmente familiare, quasi fraterno anche se buttata lì non si sa cosa voglia indicare – pare che il cantato sia frutto di una lingua inventata. Ma il gioco vale la candela, perchè Tarm ripulisce l’inquieto con un bel nero pece graffiato di psych rock e doom oltre manica.
Si intuisce che il ragazzo gioca di ambientazioni quando lo sci-fi si veste di blazer, tra oscillatori Goblin e falsi ritmi pagani. Sembra di sentire una nomenklatura cantare in coro ma senza che uno, dico uno dei coreuti azzecchi la nota dell’altro. Badate bene, non è mica un difetto.
Come prima prova mettere in padella cipolla, aglio e cinque sei intrugli di spezie esotiche non vuol dire mica uscire fuori dal seminato della cucina mediterranea. Significa lambire un po’ la Turchia o il Maghreb semmai e se riusciste a perdonare la similitudine culinaria rimarrebbe da capire se Porcelli c’è o ci fa. Me lo immagino col cappello a tesa larga a scavare nei polverosi misfatti della letteratura nera, da Scholem a Crowley, quando in realtà potrei vederlo di fronte a MTV che mangia pop corn burrosi o pistacchi.
Scegliere il caso ha poco di scientifico e lo dimostra la title track che di quella oscillazione da cabala ha la tecnica, ma il cuore sembra smarrito tra i vestiti sgargianti di un Sgt. Pepper, in quel vuoto che non si nota tra la spalla nascosta di Ringo Star e il cranio capelluto di Lennon. Nondimeno ritroviamo ambientazioni tentacolari: Blar e Across the sea che si innamorano di folk pop, Jair di luminescenza post rock, Ium di roboante space psychobilly e via di melina.
Quel boschetto della mia fantasia rimane purtroppo intatto, si solleva tutt’al più una stele di aghi di pino che lasciano il terreno incoltivabile, qualche quercia di frontiera e lunghi squarci di viti che costeggiano il litorale, ad ascoltare due canzoni riuscitissime come Gilert e Traffi.
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autore: Christian Panzano