Sette album in diciotto anni di carriera, non è proprio una media da guiness dei primati. I Mudhoney, però, nel loro percorso artistico quasi mai si son sentiti in obbligo di ottemperare le leggi non scritte del music-biz. Tanto è vero che anche nel momento di maggior popolarità, legato indissolubilmente al fenomeno “grunge” e al relativo contratto major, i nostri non hanno cambiato di una virgola la loro cifra stilistica. Figurarsi ora che, tornato all’ovile della “Sub Pop”, il quartetto di Seattle è completamente libero di esprimersi come sa. Perso il treno del successo, i Mudhoney si trovano nella condizione di non dover dar conto a nessuno se non a loro stessi. Leggermente autoreferenziali, comunque, Mark Arm & soci lo sono stati sempre. Inutile, quindi, attendersi delle imprevedibili virate che sarebbero state poco in linea con i soggetti in questione.
A partire dall’iniziale “Where Is The Future” ci si imbatte nel classico monolite sonoro pieno di fuzz che il gruppo statunitense ama con sconfinata passione. Individuato il concetto base, i quattro non fanno altro che rallentare (“I Saw The Light”) o accentuare (“On The Move”) il ritmo, a seconda dei casi. Le uniche parziali novità sono rappresentate da una decisa presa posizione contro l’establishment politico “made in USA” (“Hard On For War” o la stessa “Where Is The Future”) mentre sul versante strettamente musicale, in più di un episodio i Mudhoney sono accompagnati da una sezione fiati (operazione, per altro, già effettuata sul precedente “Since We’ve Become Translucent”) che ben si amalgama al sound virulento della band e prende quasi il sopravvento in una canzone quale “Blindspots”, col suo finale pressoché free-jazz. Piccoli dettagli che, ad ogni conto, non portano a nessuna svolta epocale ma fanno da semplice corollario ad un songwrinting che oltre certi limiti non si spinge e forse, visti i risultati, è meglio così…
Autore: LucaMauro Assante