Ci stavamo giocando gli ultimi – frenetici – spiccioli lavorativi prima delle ferie quando del mainman dei Jaga Jazzist (di cui peraltro era appena uscita la ristampa di “Magazine”) già assaggiavamo, attraverso il “singolo-antipasto” ‘The Joker’, l’album in questione.
Due mesi abbondanti per affondare le mani anche sui restanti 7 brani – e non è colpa né dell’etichetta, né del distributore italiano –, ma finalmente ci siamo. Poca impazienza, si sarà capito, ma i pregiudizi non c’entrano. Chissà, forse scatta una sorta di repulsione a carattere reverenziale, che intimidisce, nel venire a sapere come Lars faccia – e scriva, soprattutto – dischi coi Jagas dall’età di 15 anni, e si avventuri, sulla soglia dei 23, a recitare, ambiziosamente, il ruolo di Brian Wilson dell’electro-instrumental-pop, con questo “Pooka” come “Smile” in sedicesimo.
Ed in effetti, fin dall’iniziale title-track, è ben evidente il certosino lavoro di rifinitura, cesellamento e accurata elaborazione dei dettagli da parte del musicista norvegese, che nella fattispecie si è avvalso, oltre che dei già citati – all’epoca di ‘Joker’ – Ole Tobias Lindeberg (in veste di “impresario orchestrale” – e capiremo tra breve cosa si intende con tale locuzione) e Jorgen Traen aka Sir Dupermann (produzione e programming ma anche elettronica e Korg vari), di una sezione archi di 8 elementi. L’assetto si completa col double bass di Mathias Eick (un Jaga) e lo stesso Horntveth alle prese con clarini, sax, chitarra elettrica e acustica, piano, tastiere. E, voilà, anche un quinto violino. Disco ambizioso, allora? Giusto un tantino. Lars Horntveth (specifichiamo il nome: il fratello Martin, altro Jaga, fa il programming in due brani) scrive – lo ha fatto anche per illustri connazionali Turbonegro e Motorpsycho, a lui stilisticamente ben poco affini –, suona e arrangia. E, in smentita a quanto detto nel parlare di “Magazine” reissue, la sua estrazione non è accademica, ma fondamentalmente autodidatta.
Non rimandate indietro le palle degli occhi: avete già letto bene. E leggendo leggendo avrete capito anche come, benchè si parli di “electro”-qualcosa, “Pooka” sia, per di più massicciamente, suonato. E laddove il singolo aveva visto “troneggiare” il clarino dello stesso Lars, gli altri 7 brani vedono l’evidente supremazia degli archi – praticamente assenti dai credits di ‘Joker’. Ed è proprio questo – non trascurabile – dettaglio sonoro l’elemento di maggior differenzazione tra l’Horntveth solista e di gruppo (JJ – anche qui è lui che scrive, ricordate?). I brani di “Pooka” risentono di qualche residuo eco jazz ed electro (i beat, sola eccezione non fisica/umana del disco, che trovano “sfogo” nella breve e “atipica” ‘1. Lesson in Violin’), ma perdono ogni contatto col rock, per librarsi inequivocabilmente negli spazi della classica e di certe soundtrack vagamente liriche e solenni, papabili per un’aspirante pellicola blockbuster o giù di lì.
L’intento va a segno, sicuramente più che, come avvenuto in sede promozionale, tirando in ballo il termine pop (il disco si ascolta ma di qui a definirlo “easy” un po’ ce ne corre). Sarà forse il terrore – di cui alla Smalltown negli ultimi tempi sembrano soffrire – di passare per l’eternità come “experimental” tout court?
Autore: Bob Villani