Quanto tempo è passato da quando li abbiamo già visti da queste parti? 7, 8 mesi? Tanti, comunque più che sufficienti perché Rafael, Pete e Justin tornino con un sound nuovo, con uno show diverso. Allora lo shock originato dal loro set – sempre nell’accogliente club vomerese – derivò da una miscela sonora semplicemente inconcepibile per una mente musicale anche mediamente coraggiosa: kraut, new wave, punk, sintetizzatori amalgamati secondo un disegno che lasciava spazio tanto a un lucido ragionamento programmatorio che rendesse sensato tutto ciò quanto a una qualche misteriosa follia che sollevasse quanto detto dal forte carico intellettuale a cui rischiava di essere sovraesposto. Mi colpirono, e ascoltando in seguito i loro dischi mi resi conto anche di come El Guapo fossero una band da vedere oltre che semplicemente da ascoltare.
Oggi i tre di Washington D.C. tornano, anche in mancanza di un album nuovo, con una manciata di brani nuovi, e sostanzialmente diversi dagli sforzi anche più recenti. L’enfasi viene posta tanto sulle “macchine” che sugli strumenti “tradizionali”, sorta di “ubiquità” possibile in quanto l’utilizzo – in alcuni brani – di una drum machine libera Justin dal suo pur valido compito alla batteria per dirottarlo su una seconda chitarra: e il gioco è bell’e fatto. Risultato: massiccia disco-punk-wave (ove non proprio techno-rock – ma rimetto simili sottigliezze di definizione alle vostre proprietà di opinione…) che, come ci aveva già anticipato Rafael prima della gig, risponde all’esigenza della band di un sound più “focused”.
D’altra parte una simile mossa tattica permette a Justin, in tal guisa “a piede libero”, di accrescere il peso specifico dei suoi “teatrini”: laddove la scorsa volta ci aveva lasciato il ricordo dei suoi occhi spiritati, dei suoi (finti?) tic e delle sue urla spastico-schizofreniche (John Lydon?), stavolta rileviamo, oltre a ciò, un animato sfoggio di guitar play e nuovi sguardi allucinati in direzione di Rafael (che, provo a fare un riscontro, raramente ricambia). Un elemento di demenzialità che fa da contrappeso alla complessità del sound della band – frattanto comunque diminuita – e che rende un live show, com’è giusto che sia, qualcosa di più di una semplice rappresentazione dei brani di un disco, in sintesi un vero e proprio spettacolo.
Dei brani vecchi – da “Super/System” e “Fake French”: prima la band, due album e un mini, era un’altra entità, anche fisicamente (leggi: line-up) – abbiamo già ampiamente detto qualche mese fa. Riassumo: tastieroni spianati sul pubblico, chitarra abrasiva, drumming secco e nervoso. E – valga anche per i brani nuovi – una mossa in più: il cantato a più voci, sfalsate, che, oltre a rendere ulteriormente più “sfocato” e inafferrabile (ma non caotico, attenzione) il concept sonoro della band, lo rende anche più “collettivo”, più coeso nelle sue componenti. Sì, per una volta abbiamo assistito a una grande, anche se tutt’altro che tipica, rock band.
Autore: Bob Villani / foto di: Sole