E’ la prima serata veramente fredda a Londra dalla fine dell’estate. La venue (famosa più come discoteca gay che come club per concerti) non è proprio il massimo. Ed è domenica. Non ci sono insomma le premesse per un sold out, e infatti sold out non è. Ma poco importa.
Il live della band australiana è ancora una volta uno spettacolo di quelli che ti ritrovi a vedere col sorriso stampato in faccia, circondato da corpi sudati che non si fanno pregare più di tanto a ballare dall’inizio alla fine.
Bastano pochi minuti, per fortuna, per dimenticare l’agghiacciante concerto di apertura degli sbarbatelli svedesi Lo-Fi-Fnk, di cui ricordavo un tremendo live di supporto agli Of Montreal a Roma qualche anno fa: sono ancora sbarbatelli (per qualche minuto mi sono chiesto quanti anni avessero allora) e sono ancora irritanti, con il loro techno-pop di quart’ordine, cassa-dritta e melodie sceme.
Gli Architecture In Helsinki propongono una scaletta incentrata, come prevedibile, sull’ultimo disco, “Moment Bends”, accolto tiepidamente dalla critica. Le atmosfere decisamente “80’s” ascoltate nel lavoro in studio, quindi, sono presenti in maniera massiccia anche nel live. Ma se nel disco il suono synth-pop dei nuovi brani appare un po’ patinato, sul palco viene tutto frullato in quel mix un po’ naive e sbilenco che è sempre stato il marchio di fabbrica dei nostri.
La perfezione pop dei brani nuovi più riusciti (“Escapee”, “Yr Go To”, “Contact High”) è irresistibile, ma è altrettanto divertente vedere i nostri alle prese con il loro lato più wave-funk di scuola B52’s (“Hold Music”). Quando attaccano quel piccolo capolavoro freak-pop di “Wishbone” sono costretti a fermarsi per problemi tecnici del bassista, ed iniziano a improvvisare cover a richiesta dal pubblico (purché non si tratti di pezzi degli Smiths), rimanendo pazientemente sul palco fino a quando tutto torna a funzionare regolarmente, conquistando ulteriori punti-simpatia.
“Sleep Talkin’” è uno dei rari momenti “riflessivi” del concerto; il singolo che li ha fatti conoscere in tutto il mondo, “Do The Whirlwind”, viene introdotto da un riff di synth che a poco a poco si dissolve nel formidabile incastro di tastierine e pulsazioni ritmiche che ne ha sancito il successo.
Nei bis trovano spazio una folle versione di “It’s 5” suonata a mille all’ora e una corale “Heart It Races”, in cui è più che mai evidente la passione (espressa in maniera più “subdola” in altri brani) del gruppo per ritmi esotici e “tribali”. Ma tutti i generi toccati dalla band, e tutte le loro influenze, dai Talking Heads al Paul Simon di “Graceland”, fino a quelle più sfacciatamente pop (non sentite anche voi qualcosa di Michael Jackson nella strofa di “Everything’s Blue”?) sono tritate, sminuzzate e riproposte con una formula personalissima, che li rende una realtà musicale unica, aliena a tendenze e mode del momento. E capace di concerti che per quasi un’ora e mezza ti fanno dimenticare che di fuori ti aspetta il gelo.
Autore: Daniele Lama
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