Chi ha vissuto l’esperienza di vedere dal vivo una brass band balcanica, fanfara zingara o tzigana o come altro vi pare, sa di cosa sto per parlare. Dall’orchestra di Bregovic che animava i film di Kusturica fino al profondo “sommerso” (discograficamente parlando) dei villaggi del sud-est europeo, ciò che questi ensemble sanno offrire è qualcosa di profondamente vero e tangibile, che non riguarda solo le radici storiche e culturali di queste genti, ma, in senso strettamente musicale, lo stesso svolgimento di un live show, nel quale, oddio, i microfoni puntati sugli ottoni ci sono (ma giusto perché ci troviamo in un ambiente open air come il suggestivo Parco dei Quartieri Spagnoli), ma il resto segue lo schema “tradizionale” dell’esibizione: bando a qualsivoglia scenografia, se non quella degli artisti “banalmente” disposti a semicerchio; bando a ingombranti set di strumenti, tutti imbracciati dai 10 macedoni – anche la mini-cassa con piattino, detta “tapan”, è a tracolla di Saban Jazarov (e apro una parentesi, a tale proposito, sulla fascinazione da meltin’ pot etnico di simili cognomi, frutto della “slavizzazione” del patronimico di chiara ascendenza turca). Sono i “discendenti” delle bande ottomane utilizzate per incitare l’esercito, la radice da cui è fiorito questo meraviglioso agglomerato umano di tecnica, estro, talento. Mi stupisce, e mi stupirà sempre, guardare queste persone, a cui sembra mancare tutto ciò che la cultura dei “visi pallidi” occidentali ritiene indispensabile, dedicarsi con tale intensità a un bene “astratto” come la musica.
Per l’occasione – ed è ciò che fa personalmente la differenza con la gig al porto di Castellammare in una passata edizione sempre di Ethnos – sul palco ci sono anche due terribili sardi, provenienti dall’ambito “colto” del jazz: Paolo Fresu, trombettista di spessore internazionale, e il meno noto, benchè più anziano, Antonello Salis. Ed è quest’ultimo ad aprire quello che sarà un lungo – solo cronologicamente – show, con un assolo “rumorista” di piano dall’effetto decisamente spiazzante. In perfetta sintonia, peraltro, con la mise da parcheggiatore abusivo balneare – che rimanda anche al vecchietto in completo ciclistico di “Cinico TV”, ricordate? – che lo stesso sfoggia (non che il pubblico sia in tight, intendiamoci…), calata su un minuto corpo che mostra gli anni ma anche le smorfie e le faccine, e che non si risparmia né al piano – dove spesso e volentieri si sporge per usarne direttamente le corde – o di imbracciare la fisarmonica, suo strumento di originaria “elezione”.
Intanto fa il suo ingresso anche Fresu, con qualche ricamo di tromba ed effetti, ma l’attesa è per la Kocani, inutile dirlo. E non vi dico l’entusiasmo, gli applausi quando questa “sporca decina” dalla pelle olivastra invade con discrezione lo stage. Jazarov introduce col dovuto rullo di tapan, e poi via, tra i pom-pom di tube baritono (ben 3) e basso tuba, il vibrato di sax che riproduce, più o meno volutamente, le zampogne maghrebine, i liquidi “tunnel” di clarino (in mano al “bello” Dzeladin Demirov, orecchino occhi cerulei e fluida chioma), le trombe, con una carrellata di irresistibili scorribande sonore – alcune delle quali anche più complesse e quasi “cervellotiche” del classico canovaccio rutilante – per le quali è totalmente inutile fare riferimenti, se mai è possibile, del genere disco vecchio-ultimo disco-disco nuovo. Ci vorrebbero 20 occhi per guardarli tutti attentamente, dalle pance alle camicie a quei capelli ultra-corvini (e mi accorgo, e scusate se sbaglio, che gli zingari molto raramente soffrono di calvizie). Ogni tanto spariscono per lasciare quello spazio che altrimenti Fresu e Salis faticherebbero, con tutto quel ba(l)(c)cano, a conquistarsi. Così come ogni tanto si issa a fronte palco Ajlur Azizov, l’”Elvis di Macedonia”, voce “a fronna” (ma secondo voi vetero e neo-melodici da dove hanno preso?) e movenze di bacino. E penso alle due ballerine in costume d’ordinanza che allietavano le gig dei Balkanija, quanto garberebbero – e non solo a chi scrive – in un’occasione simile. Il pubblico è seduto, purtroppo, con un’unica “coraggiosa” a danzare in piedi, fazzoletto alla mano (e scoprirò, alla fine, che è di nazionalità macedone, anche se non di etnia rom).
Saranno 120 e passa, alla fine, i minuti in compagnia. Il bis pesca nella notorietà bregoviciana (e il pubblico finalmente si schioda dagli scranni), Salis si accartoccia buffamente nel suo piano coperto da un telo, Fresu è il primo a divertirsi, la Kocani scende in mezzo al pubblico – via anche i microfoni – per il consueto bagno di folla conclusivo (e saranno i guardiani del parco, sopraggiunte le 24, a stoppare ciò che chissà per quanto ancora sarebbe durato), quando le sedie sono ormai diventate nient’altro che un inutile ingombro.
Autore: Roberto Villani