Diventato “grande” e non più piccolo prodigio figaccioso insieme ai lontani Bright Eyes, Conor Oberst è arrivato ad un punto focale della sua carriera, o allungarsi nel futuro e mettere insieme sperimentazioni azzardate oppure, come poi del resto fa, fermarsi e sedersi sul suo passato e lasciare scorrere le vibratiche emozioni che in Upside Down Mountain modellano reminiscenze tinteggiate di tonalità Seventies.
Ma è anche un disco che paga pegno per certe contestabili scelte – appunto musicali – che lo mettono leggermente all’angolo dell’interesse allargato, troppo Paul Simon e Jonathan Wilson a fare da contraltare tra canzoni e ballate dall’alto tasso di glucosio, una forma d’ascolto che nel giro di pochi laps prende di noia, e quelle potenzialità espressive che l’artista di Omaha poteva giocarsi man mano vanno invece ad ingolfare un meditabondo pensiero che – nello staccare tutto e ascoltare dell’altro – ha il suo fisso punto di forza.
Dentro c’è tristezza, piccoli stupori, picchi di happyness e solitudine che si taglia col coltello, una scaletta di quindici brani autobiografici, quasi un tirare le somme con se stesso e l’anima che ha abitato nel passato, e se l’apparente felicità di Zigzagging toward the light, il Simon che sembra rinvenire nel leggero caracollare acustico di Artifact#1 e quella steel guitar languida in Double life possono dare adito ad una estetica patentata, le successive smanettate di Enola gay e l’apertura ai distorsori moderati di Governor’s ball riportano alla normalità – anche troppa – di un disco “di passaggio”, di quelli meno seri di un artista che prendono solo tempo tecnico tra quello bello di ieri e tra quello ancor più bello che verrà, da qui a poco. Almeno crediamoci ok?
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autore: Max Sannella