Gli Stars Like Fleas, da Brooklyn, sono una cult-band – dal numero imprecisato di componenti – tra le più coccolate dalla critica specializzata e dai colleghi del gotha underground statunitense e non, nonché uno dei gruppi dal nome più brutto in circolazione (cosa direbbero, in Italia, a dei ragazzi che decidessero di chiamarsi “Stelle come pulci”?). Tornano sulle scene – dopo ben cinque anni dal precedente “Sun Lights Down on the Fence” – con un lavoro mixato da Ben Frost (Björk, Gomez) e masterizzato da Valgeir Sigurðsson (già al lavoro con Björk, Múm, Sigur Rós) negli studi Greenhouse di Reyjkavik, in Islanda.
Nel disco convivono forma-canzone, psichedelia, tentazioni free-form, rumorismi assortiti, minimalismo colto e tradizione country-folk, nonché scampoli di prog-rock dal sapore freak. Si alternano lungo il percorso melodiosi raggi di luce e foschi aggrovigliamenti sonici. La voce di Montgomery Knott, tediosa e monocorde, stende una spessa coltre malinconica ovunque faccia capolino.
Gli Stars Like Fleas giocano con l’ascoltatore, ponendosi prima in maniera amichevole (quando è la melodia a predominare e i toni si fanno morbidi), e poi subito dopo virando verso inoffensivi estremismi da salotto. Dopo un po’ il gioco si fa noioso, e la presunta ricerca di originalità diventa manieristica. Insomma, a me questo disco ha provocato non pochi sbadigli. Ma non mi stupirei se altrove lo definissero un capolavoro assoluto.
Autore: Daniele Lama