Con il film di Paolo Sorrentino, Andreotti diventa divo. E pure qualcosa in più
Basterebbe dire “un film meraviglioso” per dare una descrizione esatta de Il divo, l’ultima opera di Paolo Sorrentino, vincitore del Premio della giuria al 61° Festival di Cannes. Basterebbe andare al cinema, comprare il biglietto, sedersi in poltrona e guardare. Sorrentino riesce con estrema capacità a sintetizzare nelle sue opere, l’essenza della vis cinematografica. Ritmo, movimento, staticità, pathos, divertimento tutto condito da atmosfere surreali e allo stesso tempo iperreali. Ed è proprio sul filo sottile della realtà cinematografica e della fiction realistica che si muove la sua biografia iperdocumentata di Giulio Andreotti.
Si è trasformato in un topo da biblioteca, il regista napoletano, alla ricerca di ritagli di giornale e documenti da analizzare, studiare, mettere da parte. Un progetto che ha portato avanti per anni e che ha creduto irrealizzabile, visto che l’argomento ha terrorizzato non pochi produttori.
E ha fatto la gioia invece, di Indigo Film, Babe Film, Lucky Red e Parco Films.
Applauditissimo in Francia, non è stato particolarmente gradito dai soggetti ispiratori. In un articolo, Repubblica riporta che il vero Giulio, durante una proiezione privata del film – nella saletta del Museo degli strumenti musicali di Roma – si è stizzito non poco e Ciriaco Pomicino – in un’intervista sul Corriere del Mezzogiorno – ha commentato il film con un secco “mai fatto feste con ballerine brasiliane”.
Non un accenno, comunque, alla maestria degli attori, figurarsi a quella registica o alla scrittura del film, assolutamente meravigliosa.
E infatti, la grandezza del Divo – che si compone indubbiamente dell’ingegno di Sorrentino, uniti alla colonna sonora divertita e a tratti cupissima di Teo Teardo (ormai collaboratore fisso) e della bravura di Tony Servillo (una specie di freak agghiacciante, per nulla somigliante eppure identico), di Carlo Buccirosso (meraviglioso il suo ritratto di Cirino Pomicino), di Anna Bonaiuto (che nel film interpreta Livia, la fedelissima consorte), di Piera degli Esposti e degli altri interpreti – è tutta nella scrittura.
Una scrittura calibrata, ben ritmata, mai eccessiva, fluida eppure solida, feroce e allo stesso tempo divertita.
E se rimarrà nella storia il monologo del divo Giulio sul Bene e sul Male (tra i tanti suoi soprannomi, gli stato affibbiato anche quello di Lucifero), sarà impossibile dimenticarlo mentre come una specie di lombrico, passeggia tra le strade di una Roma vuota in cerca di un prete con cui parlare non dei suoi peccati ma di politica.
Con la sua ultima opera, Sorrentino consente allo spettatore di attraversare la geografia di tutti i sentimenti umani.
Parte la prima inquadratura e già la bocca è spalancata: è stupore mentre passano in rassegna pezzi della storia dell’ultima Italia – quella fatta ad immagine e somiglianza del divo Giulio, uomo dalle fattezze faunesche e sicuramente poco umane – e assumono le forme di una D accompagnata dalla C, di una sigla, Loggia P2, e di un nome, Aldo Moro.
Un attimo dopo, è una carrellata di stragi: scatta la speranza. Guardi e intanto speri di aver sbagliato sala, di trovarti di fronte ad uno di quegli action movie americani, un po’ pulp, magari con Bruce Willis di nuovo in forma, e invece è la macchina di Giovanni Falcone che piomba giù dall’autostrada.
È shock. Non importa quanto sia vero o soltanto verosimile quello che racconta Sorrentino, per quello ci sono gli atti e le smentite.
E poi c’è ancora lui, il divo Giulio, intramontabile Dorian Gray che fatte di suo pugno o meno ha sul volto tutti i segni del male e il castigo di un’eterna emicrania che nella finzione del regista napoletano, assume le forme dello statista Aldo Moro.
È un film assurdo quello di Sorrentino, tessuto lungo le trame dell’ambiguità. Da un lato l’indecifrabilità di un personaggio che ha caratterizzato per più di mezzo secolo la storia della politica italiana: un uomo dalle fattezze e i modi cardinalizi, imperturbabile e allo stesso tempo tormentato; dall’altro la storia di un Paese che sembra ingurgitare le proprie disgrazie, perse nell’incedere del tempo.
Servillo ha sostenuto l’onere di interpretare il principe dell’oscuro della nostra Repubblica, con imperturbabilità brechtiana: non c’è immedesimazione, né pathos. Ma un piccolo fil rouge, rosso d’amore che connette il Titta delle “Conseguenze dell’amore” al Giulio che si rincuora e s’intenerisce, sormontato da un infinito ritratto di Carl Marx, mentre ascolta la erre moscia della sua Livia e prendendola per mano, ferma per un attimo il carrozzone della sua vicenda pubblica, per risollevarsi lungo le note dei “Migliori anni della nostra vita”.
Autore: Michela Aprea