Preme innanzitutto precisare che questo disco, sebbene prodotto da Will Oldham e mixato dal fratello Paul Oldham, non può in alcun modo rientrare nel moderno folk urbano tanto sugli scudi negli ultimi tempi (Devendra Banhart, Toby Burke, Will Oldham, Iron & Wine): Alasdair Roberts è un trentacinquenne cantautore scozzese, con un passato negli Appendix Out, che anche in questo suo terzo disco solista mette in atto una rielaborazione della musica antica del suo Paese, ed il progetto è collocabile in quel genere sconfinato, e poco noto ai più – ma ricco di tesori inestimabili tutti da scoprire, per chi ha due grammi di curiosità –, che è la world music.
Otto ballate scozzesi per voce, chitarra, violino, flauto, pianoforte, arpa e dulcimer che ci piombano addosso dal XVII secolo attraverso, consentitemi di dirlo, il filtro degli anni 60-70, quando in Gran Bretagna ci fu l’orgogliosa riscoperta del folclore musicale locale, e molti artisti, tra i quali Bert Jansch, Chieftains, Dave Swarbrick, Donald Lindsay, Alan Stivell, Packie Manus Byrne incisero in chiave più o meno ortodossa (poco ortodosse license ‘folkish’ se le presero, con interessanti risultati, i campioni del progressive e dell’hard rock: Jethro Tull, Gryphon, Pentangle, Gentle Giant, Steeley Span, Traffic) taluni tradizionali ormai quasi dimenticati; e proprio riarrangiando con intento fortemente conservatore quelle incisioni ascoltate da vecchi vinili, Alasdair ci racconta storie straordinarie di soldati, banditi e mercanti, amanti perseguitati, superstizioni medievali (‘A Lyke Wake Dirge’), terribili infanticidi (‘The Cruel Mother’), ladruncoli che con astuzia sfuggono alla gogna, navi cariche di marinai che inspiegabilmente colano a picco a largo del Galles (‘Admiral Cole’), donne tramutate per incantesimo in cigno e trafitte per disgrazia dalla mano del loro innamorato cacciatore (‘Molly Bawn’, in cui si distingue chiaramente l’accompagnamento vocale di Will Oldham), versioni secolari della storia di Caino e Abele (‘The Two Brothers’).
Non ci sono però ‘gighe’ o ‘reels’ ad allegerire i 50 minuti del lavoro in questione: esso al contrario è composto solo da eleganti e malinconici ‘laments’ di estrazione cortigiana o popolare (otto vere e proprie ‘murder ballads’, a detta anche della stampa inglese) nei quali la cantilena evocativa di Alasdair prepondera e gli strumenti fanno da semplice tappeto armonico con le corde timidamente arpeggiate coi polpastrelli o sfiorate con l’archetto a coprire l’assenza di percussioni (fanno eccezione ‘On The Banks Of Red Roses’ e la conclusiva ‘A Lyke Wake Dirge’, più ricche di musica suonata), e non aiuta certo l’ascolto la traballante ‘The Two Brothers’ – vicina ai dieci minuti e gravida di difficoltà per la voce di Alasdair – piazzata lì nel mezzo del disco; così non mi sento di consigliare No Earthly Man a chi non ama la tradizione dei bardi e dei cantastorie e non conosce un po’ d’inglese.
Certo, Enya o Lorena McKennitt se le sognano le meraviglie rinascimentali di ‘Sweet William’ (pezzo tradizionale giunto nell’antichità sino in America, dove ne esistono differenti versioni più o meno simili a quelle tramandate nei paesini scozzesi), ‘Admiral Cole’ e ‘The Cruel Mother’, ed il coraggioso uso del sintetizzatore che fa il verso ad una cornamusa in ‘Lord Ronald’ incuriosisce, ma il disco resta irrimediabilmente per i seguaci del genere.
Autore: Fausto Turi