Quando i greci conquistarono e bruciarono Troia ponendo fine alla guerra più famosa dell’antichità, vincitori e vinti poterono tornare alle loro case; Diomede era un guerriero Acheo che tornato ad Argo scoprì di essere stato dimenticato dalla moglie e dai suoi sudditi; fuggì quindi in Italia dove insegnò agli indigeni le tecniche di navigazione e l’arte equestre; la perdita di un regno si trasformò così in opportunità di diffondere cultura e conoscenza.
Gli Oneida hanno vissuto più o meno la stessa esperienza: nel 2006 hanno costruito e fondato “Ocropolis” uno studio di registrazione a Brooklyn facendone la loro casa artistica in cui hanno ospitato moltissimi musicisti e artisti di “visual art”. Nel 2011 però l’intero palazzo è stato demolito frantumando i sogni della band. Per questo negli ultimi sei anni si sono dedicati ai concerti e hanno allungato i tempi per comporre il nuovo materiale che, registrato in diverse location, è confluito in questo album. Va da sé che dopo una lunga attesa la pubblicazione di questo lavoro sia ben accolta dai fan e dai critici musicali.
L’ascolto di questo disco lascia la sensazione di essere all’interno di un’astronave, o meglio di un televisore che ci sottopone al bombardamento di fastidiose scariche elettrostatiche; magari proprio quelle raffigurate in copertina. Con la loro classe indiscussa spaziano dal Krautrock imbevuto di elettronica al post-rock, dal noise al punk, offrendo brani non proprio melodici ma votati alla sperimentazione.
L’esordio di “Economy Travel” propone una voce allucinata che sembra amplificata da un megafono accompagnata da suoni in loop ricorsivi e da una batteria molto presente mentre la seconda traccia è contraddistinta da chitarre acidissime; dopo un inizio all’insegna del noise e del ritmo si approda al singolo “All In Due Time”: il cantato iniziale spiazza perché assomiglia a “Paranoid” dei Black Sabbath, poi vira verso l’originalità e cancella questa sgradevole sensazione. “Good Lie” ha un incedere più tranquillo e melodico con un cantato sbilenco alla Beck. Il disco si chiude con la lunghissima “Shepherd’s Axe” che nei suoi 18 minuti sbanda nel progressive e nella psichedelia.
Il godimento puro lo si ha soprattutto ascoltando il drumming visionario del mitico Kid Millions, ricco di fantasia e tempi dispari, diventato negli anni un punto di riferimento per tutto il movimento batteristico della grande mela.
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autore: Claudio Prandin