“Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non
avessi coloro ai quali tu risplendi!”.
Quarant’anni fa Stanley Kubrick capì che i film di sciencefiction non potevano essere solo un giocattolo sfizioso, ma invece rappresentavano la possibilità di porre domande reali e necessarie sull’esistenza. La conseguenza di questa intuizione epocale che, per adesso, non può essere trascesa (se non dal cinema favolistico di Lucas) porta obbligatamente ad una messa in scena claustrofobica ed inesorabilmente interna. Il film Sf in questa maniera si trasforma in un film da “camera” imperniato sullo spazio limitato dell’astronave in cui si possono insinuare alieni (L’Alien di Scott) o macchine (HAL dell’odissea kubrickiana) con propositi omicidi.
L’azione si consuma fino a quando non avviene l’estinzione del combattimento che si è istallato all’interno dello spazio vitale sospeso nel freddo cosmico. “Sunshine” di Danny Boyle, ora nelle sale, appartiene a questo filone. È il diario di bordo trasfigurato di una navicella spaziale che deve sganciare un ordigno al centro del sole procrastinando la cessazione della fusione nucleare della nostra stella e permettendo ancora la vita sulla terra. Il film raccoglie tutta questa eredità della Sf, ma lo fa con un ingegno tale che riesce ad ampliare la camera-set entro cui si genera e muore l’azione. Viene conquistato così l’esterno diverso dall’ignoto che poteva incontrare l’occhio di Dave Bowman nel film di Kubrick, qui infatti è uno spazio ben delimitato e conosciuto con il quale si condivide anche una sorta di confidenza ossessiva e disintegrante. Questa estensione è in qualche modo inaugurata dalla battuta iniziale dalla quale si apprende che la Icarus II è grande “quanto l’isola di Manhattan”. Un interno che si fa esterno, in cui ci si può perdere e non più solo incastrare a causa di un passaggio angusto. Il veicolo spaziale è inoltre provvisto di una cabina in cui si riproducono le condizioni ambientali della terra per illudere i passeggeri di essere tornati a casa anche solo per attimo, per un istante si può abitare l’esterno – quello vero, non quello freddo ed indifferente dello spazio. In questo viaggio che vale la sopravvivenza dell’umanità tutto è stato calcolato con una precisione insuperabile, ma è inumano prevedere le continue iniziative dell’uomo. Così per caso (la casualità e l’errore sono sempre intrecciati) la Icarus II incontra la navicella precedente Icarus I la cui missione ha fallito per motivi non accertati. Qui l’errore umano si innesta una volta per proliferare in seguito con un’inarrestabilità tumorale: si decide di attraccare la Icarus I (per sfruttare anche la sua bomba inutilizzata ed aumentare le possibilità di successo della missione) ma l’unione di due interni porterà solamente all’autodistruzione. Quel che parte per raddoppiare le proprie possibilità di riuscita diventa la causa di un fallimento completo, di un autosabotaggio inconsapevole nato dalla voglia di procrastinazione dell’esito, dal desiderio di un’altra occasione. E le analogie con Kubrick, seppure labili e legate esclusivamente ai concetti in gioco, continuano: la metafora scacchistica delle pattuglie sacrificabili per salvaguardare la compagine umana, la sconfitta della parte per la vittoria del tutto. Tutte le pedine vogliono sopravvivere solo per morire dopo, quando l’interno sarà ormai frantumato e si ricongiungerà con l’esterno. Intanto sarà solo il quinto membro intruso pazzoide, a porre la questione ragionevole e ovvia dell’interferenza nel progetto divino: è difficile non ritrovare in questo personaggio una riproposizione del colonnello Kurtz di Apocalypse Now (immerso stavolta nella baluginante aura solare).
La falla di “Sunshine” è la direzione degli attori animata da microscopici antagonismi che sono anche credibili, ma impoveriscono la grandezza dell’insieme perché si tingono di compenenti soggettive. Infatti l’impersonalità spesso raggiunta da Boyle è purtroppo smentita da lui stesso e dallo sceneggiatore Alex Garland. Non è appropriata neanche la conclusione che vuole blandire un abbrutimento latente, ma ci riesce solo a costo di essere sbadata e frettolosa. Comunque sia è un film imperdibile che rinnova il tessuto della fantascienza e ne conferma la sua inossidabilità.
Autore: Roberto Urbani