Ma per quale ragione un musicista/produttore del calibro internazionale di Parish -che ha collaborato in passato con PJ Harvey, Giant Sand, Sparklehorse, Eels- può rimanere stregato dall’Italia e dalla Sicilia in particolare, al punto di realizzare qui da noi (il resto in Inghilterra e Danimarca) buona parte del suo nuovo album? Beh, lui sostiene che qui ha trovato un modo nuovo di lavorare: senza pressioni, calcoli, tecnologia invasiva e senza la sensazione opprimente di controllo assoluto su tutto che c’è in certi grandi studi d’incisione, che soffoca la creatività.
Senz’altro la cricca catanese di Cesare Basile, Hugo Race e Marta Collica lo ha introdotto molto bene nell’ambiente della musica indipendente italiana mettendolo a suo agio, così questo disco può uscire per la nostrana etichetta Mescal, e si va ad aggiungere ad una serie ormai considerevole di recenti collaborazioni tra artisti italiani e stranieri (abbiamo scritto di recente di progetti Ita/Usa, tra i quali il disco dei Bellini su Temporary Residence, e degli Staff su Homesleep).
‘Once Upon a Little Time’ (Mescal) è prodotto in maniera superlativa, e del resto cos’altro attendersi da uno che ha dato l’impronta in studio a dischi impeccabili quali ‘To Bring you my Love’ di PJ Harvey, ‘Chore of Enchantment’ dei Giant Sand o ‘Gran Calavera Elettrica’ di Cesare Basile? Elegante dalla prima all’ultima traccia, qua e là persino troppo ‘classic rock’, con un appeal maturo che a me ricorda -in primis per la voce, sarete daccordo- il Lou Reed dandy e cinico di ‘Coney Island Baby’, annata 1976 (ascoltate le ballate ‘Choice’ e ‘Glade Park’), ma anche inevitabilmente Howe Gelb, amico di Parish, in special modo negli episodi (pochi, giusto un paio…) veramente folk del disco.
‘Once Upon a Little Time’ decolla per davvero nella seconda metà: qui troviamo ‘Kansas City Electrician’, ‘Nobody Else’ ed il lo-fi ‘Even Redder than that too’, che sono poi gli episodi più ‘sporchi’ e ruginosi grazie agli incisi di chitarra di Hugo Race; ma a dirla tutta è anche nelle (troppe?) arie notturne d’atmosfera che Parish si rivela quale compositore e chitarrista di qualità: lo strumentale ‘Stranded’, o la splendida conclusiva ‘The Last Thing I Heard her Say’ (che per forma e lirismo decadente avrebbe fatto la sua bella figura sugli ultimi lavori in studio di Bob Dylan) mettono i brividi, anche se sono pronto a scommettere che chi del folk americano ama le cose più ritmiche e movimentate rischia di non restare sodisfatto da un lavoro cesellato e malinconico come questo ‘Once upon a Little Time’.
Metterà invece tutti daccordo ‘Even Redder than that’, proposta in duplice veste: all’inizio del disco in versione acustica, ed alla fine in versione elettrica lo-fi: una scelta curiosa che in ogni caso diverte.
Agli strumenti John è sostenuto da un’affiatata e prestigiosa band di amici: Marta Collica, Giorgia Poli (ex Scisma), Jean-Marc Butty (Venus) ed Hugo Race (ex Bad Seeds): in pratica -Parish compreso- la line-up del progetto ‘Songs for other Strangers’ che nell’Inverno del 2004 girò l’Italia in tour con Manuel Agnelli e Cesare Basile (e che finora non si è concretizzato in un’uscita discografica).
Non è un cantante, John: lo sa e dunque non azzarda al microfono linee vocali complesse e tonalità troppo alte; piuttosto sussurra, racconta, descrive con voce poco aggraziata immagini di vita quotidiana e retroscena interiori, in cui noi esseri umani siamo dipinti come pugili (‘Boxers’), e così “troviamo nobilitazione nella violenza” e di continuo “finiamo al tappeto e veniamo contati”.
Se poi vi state chiedendo cosa rappresenta il vulcano che erutta sulla copertina del disco, beh: in ‘Even Redder than that’ John paragona ad un vulcano la donna: “si sa che la donna è come un vulcano, faresti meglio, amico, a pregare che non si svegli”.
Autore: Fausto Turi
www.johnparish.com