Chi l’aveva sentito prima di me, questo “Panda Park”, mi aveva preparato al peggio. “In un pezzo sembrano i Guns ‘n’ Roses!”, “C’è un pezzo che sembra una ballad dei Boston!”. Paragoni che da qualche parte potrebbero essere anche interpretati come complimenti, ma che in questo caso – ve l’assicuro – non lo erano affatto. Per un po’ ho sperato, ascoltando il disco decine di volte, di poter contraddire affermazioni tanto velenose. Ce l’ho messa tutta, ma è stato invano. Insomma: che hanno combinato i nostri cari 90 Day Men ?
Niente di più semplice: è successo che l’equilibrio – precario, e proprio per questo affascinante – tra tensioni post punk e sfumature progressive, su cui si reggeva la musica della band nel precedente “To Everybody”, si è miseramente spezzato. A favore della seconda “componente”, come da più parti si temeva, del resto: se mi passate la metafora “pittorica”, si potrebbe dire che le “sfumature” sono diventate secchiate di vernice. Le tastiere (e pianoforti, e synth vintage etc…), che nel lavoro precedente, pur essendo massicciamente presenti, non suonavamo mai “eccessive”, in “Panda Park” sono traboccanti, barocche, ridondanti. Le voci si arrampicano spesso in falsetti irritanti, come in “Chronological Disorder” dove (sic!) sembra che a cantare sia davvero Axl Rose. In “Silver and snow” mancano solo gli accendini accesi del pubblico, e poi ci si può immaginare tranquillamente in uno stadio a strapparsi i capelli per la ballad soft-hard degli Scorpions (o i Boston, fate voi) di turno; “Night Birds” sembra a tratti una cavalcata psichedelica degli Ozric Tentacles (!).
Speriamo solo che l’effetto del trip “seventies” dei 90 Day Men svanisca presto. O dovremmo prepararci a salutare (non vedete l’ora, vero?) l’avvento del (brrrr….) post-hard rock!
Autore: Daniele Lama