Se utilizziamo l’espressione arte pubblica nel senso corrente, facciamo riferimento all’arte collocata in un luogo pubblico, ed in particolare in un luogo aperto, e/o di transito.
Tradizionalmente, quindi, ciò che noi definiamo arte pubblica poteva identificarsi con alcune forme di architettura non-privata, e con i monumenti. I palazzi del potere, in senso ampio, così come le fontane monumentali, gli archi di trionfo – e poi via via obelischi, cippi, monumenti equestri e quant’altro – hanno chiaramente avuto, da sempre, una funzione eminentemente politica.
Funzione che a volte era esplicita, nella celebrazione di questo o quel personaggio, altre implicita, nella trasmissione di un’idea incarnata dal potere politico attraverso uno stile.
In questo senso, ed in epoca moderna, i regimi totalitari del novecento ci hanno lasciato gli esempi più chiari; in particolare, lo stile littorio del fascismo, con il suo richiamo alla Roma imperiale, e quello grandiosamente proletario dei soviet, hanno incarnato alla massima potenza quest’idea di arte pubblica come funzione politica.
L’arte (pubblica) nasceva all’interno delle cultura dominante, la esprimeva e la rafforzava simbolicamente.
Non a caso, spesso accentuandone gli aspetti da culto della personalità, questa funzione dell’arte pubblica è poi trasmigrata verso alcuni paesi emergenti con regimi autoritari – ad esempio, l’Iraq.
Il discorso si fa diverso, più sottile, in quei paesi dove si consolidano forme di democrazia rappresentativa, ed in cui si sviluppa un diverso rapporto con l’arte – in particolare, con l’arte contemporanea.
L’arte pubblica è ancora manifestazione del potere, poiché la sua realizzazione si lega a chi l’ha promossa, ed in qualche modo ne sancisce e celebra la capacità. Ma non esprime più un’idea, non trasmette valori intrinsecamente legati al potere politico. Si fa, insomma, realmente pubblica.
Ma persa quella funzione eminentemente politica, ne ha acquisita un’altra?
É chiaro che questa non può essere meramente decorativa, forma preziosa di arredo urbano, tanto più che, non di rado, finisce col collocarsi in luoghi privi di decoro.
L’arte pubblica, dunque, dovrebbe oggi avere una funzione diversa, più ampia e profonda, non lontana da quella che dovrebbero svolgere i musei d’arte contemporanea. Perché – è ovvio ma vale la pena rammentarlo – l’arte pubblica è arte contemporanea, con tutto ciò che questo implica.
Questa nuova funzione, dunque, è eminentemente sociale. Vuole non solo rappresentare la bellezza, ma essere strumento di educazione alla stessa.
Può essere interessante, al riguardo, osservare il ruolo dell’arte pubblica a Napoli.
Penso al palazzo ex-Arin a Ponticelli (nella foto in evidenza), con l’intervento di Daniel Buren, alle grandi installazioni in Piazza del Plebiscito, ma anche – ed ovviamente – alla metropolitana dell’arte, soprattutto laddove esse erutta in superficie, spargendo frammenti d’arte all’intorno delle sue stazioni. Ad esempio la nuova stazione Toledo, il cui spazio esterno è dominato dal cavaliere metallico di William Kentridge, ed ancor più all’area intorno la stazione di Salvator Rosa, disseminata d’interventi artistici opera di Mimmo Rotella, Ernesto Tatafiore, Mimmo Paladino, Renato Barisani, Gianni Pisani – e che, proprio come lava, si insinuano tra i palazzi e si inerpicano sulle facciate di questi.
Non meno interessati, in quanto spingono al massimo l’assottigliarsi del limes tra architettura ed arte visiva, alcune stazioni non ancora completate, come quella Duomo, con la lanterna magica di Massimiliano Fuksas, o quella di Monte S. Angelo progettata da Anish Kapoor sulla linea di raccordo tra Cumana e Circumflegrea.
C’è dunque, a Napoli, una cospicua presenza di arte pubblica, che la rende un caso interessante – tanto più che si innesta in un corpo urbano ricchissimo di testimonianze artistiche del passato.
Va inoltre tenuto presente che la città – anche per la particolare struttura urbanistica del suo centro storico – si muove in una direzione di massiccia ed estesa pedonalizzazione, e quindi nei prossimi decenni cambierà significativamente la fruizione del tessuto urbano – e quindi, dell’arte pubblica.
La domanda quindi è: l’arte pubblica, a Napoli, assolve alla sua funzione?
Non semplicemente rendendo la città più bella – posto che lo faccia – ma fornendone a chi ci vive la consapevolezza, e radicando la coscienza che si tratta di un bene prezioso. Svolgendo, insomma, quel ruolo pedagogico di cui si diceva. Last but not least, attuando anche – attraverso la dimestichezza visiva della quotidianeità – una forma di educazione al contemporaneo, a cui i musei da soli non possono adempiere.
Non si tratta, ovviamente, di una domanda retorica; per quanto mi riguarda, ritengo che la risposta non sia così netta.
Per un verso, c’è una parte di città (autonomamente dotata degli strumenti culturali necessari), rispetto alla quale sicuramente si può affermare che questa funzione… funziona. Per un’altro, c’è la gran parte della cittadinanza a cui tutto ciò arriva in modo del tutto superficiale, indipendentemente dall’impatto estetico positivo o meno che ne riceve. Una parte cui sembra appartenere la stessa amministrazione comunale, che con la medesima superficialità si compiace dei riflessi positivi che l’arte pubblica riverbera su di essa, ma non sembra coglierne in alcun modo il significato profondo.
In tal modo, il dibattito pubblico sull’arte pubblica – che dovrebbe essere parte integrante del processo di crescita della città – semplicemente scompare, lasciando la scena ad una continua, quanto sterile, querelle tra conservatori e non, laddove i primi immaginano una città immutabile, congelata nel tempo (passato), mentre i secondi la immaginano soltanto come scenografia sul cui sfondo imbastire ogni genere di spettacolo.
Il caso delle luminarie di Natale, su cui recentemente polemizzava dalle pagine di Repubblica Eduardo Cicelyn, così come quello sull’uso – e l’illuminazione – di Piazza del Plebiscito, sono per l’appunto illuminanti.
Se, dunque, Napoli può essere considerata un case study per quanto riguarda l’impatto dell’arte pubblica, si può forse affermare in conclusione che la presenza della stessa – per quanto significativa per qualità e quantità – non è condizione sufficiente perchè svolga efficacemente il proprio ruolo.
Perchè ciò avvenga, è necessaria un’azione coerente da parte delle pubbliche amministrazioni, così come una partecipazione attiva della cittadinanza ai processi che precedono e seguono le scelte in materia. Diversamente, il rischio è che tutto si riduca a costosissima scena. Mera finzione.
autore: Enrico Tomaselli