Giovedì 1 dicembre, l’Auditorium Novecento di Napoli, ospiterà il compositore, musicista ed etnomusicologo Paolo Angeli (un evento targato Wakeupandream, Auditorium Novecento e Main Out).
In occasione del concerto, abbiamo posto alcune domande a Paolo Angeli.
Lei suona uno strumento unico; quale è stata l’ispirazione che ha portato alla realizzazione della chitarra sarda preparata e quali sono le sue caratteristiche tecniche e musicali?
La chitarra sarda preparata ha una storia quasi trentennale. È il frutto di un momento particolarmente intenso e vivace che coinvolse Bologna tra la fine degli anni ’80 e metà anni ’90. In quel momento i grandi visionari delle avanguardie internazionali – quali Jon Rose, Fred Frith, Tom Cora, Butch Morris (solo per citarne alcuni) – facevano spesso base in città, con laboratori e realizzazioni di progetti con i nostri Ensamble di improvvisazione e composizione collettiva. Io facevo parte del Laboratorio Musica e Immagine, con cui realizzavamo colonne sonore per film muti. Credo che gli incontri con Frith (padre della chitarra preparata) e Rose (inventore di incredibili violini immaginifici) siano stati fondamentali per innescare il progetto di ricerca sulla chitarra sarda. Era il 1993 e, contemporaneamente alle esperienze con le musiche sperimentali, facevo ‘bottega’ con Giovanni Scanu, quasi novantenne, dal quale apprendevo i segreti della chitarra tradizionale gallurese e logudorese. Dall’incontro tra avanguardia e tradizione nasce la prima chitarra sarda preparata: un ibrido tra chitarra baritono, strumento a percussione, violoncello, ghironda, kora, basso elettrico. Ha un sistema di martelletti come il piano, azionati meccanicamente da 6 pedali; diverse eliche, con variatori di velocità, per ottenere bordoni e melodie dal suono continuo; diversi ponti mobili per emulare timbricamente strumenti diversi; 3 set di corde (le sei principali, otto di risonanza e 4 di sitar montate su un ponte di contrabbasso e innestate su un manico di violino). Per gli addetti ai lavori aggiungo che ogni corda ha un output, aspetto che permette di spazializzare e gestire separata gli effetti per ogni singola corda. È una vera e propria piccola orchestra trasportabile in una custodia di chitarra”.
La sua musica è commistione e abbattimento di generi che dalla musica popolare, passando per il jazz, arrivano sino all’avanguardia. Da dove nasce questo suo trasversale linguaggio artistico?
È la risposta naturale ai miei gusti musicali. A seconda dell’umore posso ascoltare per un’intera giornata musica sarda, flamenco, rebetiko, virare sulla discografia di Björk e Radiohead, sulle diverse musiche del nord Africa, ripescare i dischi sperimentali del rock d’avanguardia, il free jazz di Ornette Coleman, Don Cherry o l’Hard Bop di Mingus, i guitar solos di Frith, le tessiture pacate di Metheny, le sue collaborazioni nel free, o, ancora, passare dalla musica medio orientale al suono west coast di Michael Hedges. Grazie all’improvvisazione tutte queste isole linguistiche entrano in comunicazione, senza cercare necessariamente una coerenza stilistica. Nasce così un’idea di avanguardia mediterranea in cui colto e popolare vanno a braccetto, senza una suddivisione gerarchica tra ambiti musicali diversi. I generi esistono, sono storicizzati, hanno un lessico che adoro conoscere in profondità (anche solo come ascoltatore). Sta a noi, con onestà, rompere gli argini per far confluire il tutto in una musica bastarda che sia lo specchio del nostro tempo. In questo senso la mia idea di musica è una babele di suoni che convivono in armonia e contrasto”.
Ha appena dato alle stampe il Suo ultimo lavoro discografico in studio “Rade” in cui emerge forte sia la pacatezza che l’inquietudine del Mediterraneo date dal melting pot culturale e dalle molteplici sfumature emotive, tanto sofferte quanto liberatorie, di un mare che è stato, ed è ancora oggi, il protagonista di una parte importante della storia dell’umanità. Di grande lirismo sono le tensioni che si avvertono nell’ascolto dell’intero disco. Quale è stata la genesi e il percorso che hanno condotto alla composizione di “Rade”?
“Potrei suddividere la mia biografia in tre grandi blocchi: 18 anni a Palau (Sardegna), 16 a Bologna, 16 a Barcellona. Il disco precedente, Jara, era una sorta di ritorno nel grembo materno: la Sardegna. Dopo trent’anni oltre mare, ho passato quasi due anni consecutivi nell’isola, tra un borgo nell’interno ai piedi della Giara di Serri (dove si trova il santuario nuragico di Santa Vittoria) e l’isola di La Maddalena. Chi nasce e cresce in un’isola ha un elemento che lo distingue, che, a seconda dei caratteri, può essere considerato limitante oppure un punto di forza. È molto evidente che sei circondato dal mare e che la terra è marcata geograficamente da un limite che non puoi ignorare. Puoi osservarlo alla distanza, conoscerlo nelle sue sfaccettature, oppure affrontarlo con rispetto. Per me il mare è sempre stato un elemento protettivo, un veicolo per affrontare il mondo con un gioioso senso di avventura e libertà. Credo che Rade sintetizzi il mio rapporto con il mare, la dinamica di relazione che si instaura con le culture che bevono dal mediterraneo, la capacità di trasformazione dei popoli migranti che si trovano quotidianamente a scegliere cosa abbandonare, per fare spazio ad un futuro in cui tutto è ancora da scrivere. È lo specchio della realtà culturale che ho trovato a Valencia, la mia nuova base nella penisola iberica, dove vivo da un anno. Credo che sia stato il luogo perfetto per fare convogliare tutte queste pulsioni con una velocità di canalizzazione per me del tutto inedita (normalmente impiego molto più tempo per arrivare alla definizione delle composizioni di un album). È un disco che sa di Azhar (i fiori d’arancio), uno specchio di quanto si respira in questa città, luogo di transito di tantissimi musicisti di diverse aree del mediterraneo (Siria, Geordania, Cipro, Sicilia) che realizzano progetti con virtuosi indiani, brasiliani o appartenenti all’area del flamenco. Credo che Rade, soprattutto nei live, sia un album che rispecchia pienamente i trent’anni di convivenza con questo strumento e con una maggiore consapevolezza sull’uso della vocalità sarda in ambito contemporaneo”.
Dal Suo esordio discografico “Dove dormono gli autobus”, datato 1995, è trascorso più di un quarto di secolo. Quali sono, per Lei, i cambiamenti più significativi che hanno caratterizzato, in questo lasso temporale, il mondo musicale, e in generale il mondo artistico e culturale, in termini di realizzazione e fruizione della musica e dell’arte?
“È cambiato tutto e non è cambiato niente. Faccio degli esempi concreti. Io sono cresciuto nei contesti di autoproduzione. La musica creativa negli anni ’90 era spesso contestualizzata in un circuito internazionale profondamente legato a spazi autogestiti. Si faceva parte di una famiglia allargata in cui chi organizzava era a sua volta promotore di un’idea di società basata su contenuti diversi da quelli del mercato. In questo senso la musica alternativa implicava anche una dinamica di partecipazione collettiva. Oggi, dopo alcuni anni di pausa, sono felice di suonare, come in questo tour, all’interno di un circuito promosso da giovanissimi, che spesso rischiano in prima persona, lavorando senza copertura dei finanziamenti pubblici. C’è stato quindi un passaggio di testimone che garantisce una continuità nelle modalità di fruizione della musica. Stiamo assistendo ad un risveglio nelle giovani generazioni che dimostra quanto la musica sia un bisogno primario. Credo che si debba passare il testimone e che si debba coltivare questa vitale scena di giovani organizzatori, soprattutto per la loro attenzione alla commistione dei linguaggi. In Italia ho potuto constatare un entusiasmo nella percezione degli eventi dal vivo e un rinnovamento del pubblico (ad eccezione dei contesti jazzistici dove ci pone la problematica di un mancato passaggio del testimone, con un’età media abbastanza alta). Questo va di pari passo con i tour internazionali e con le esibizioni nei grandi festival, o in teatri come la Carnegie Hall e con i viaggi in tutti i continenti (anche se le terre di approdo si sono ridotte per ovvie ragioni di geopolitica mondiale). Sono molto contento della fase che sto attraversando e delle scelte che ho fatto negli anni: posso suonare in un club da 60 posti e in sale da 1500, sono libero di improvvisare e di non dover uniformare la mia musica, mi sento profondamente libero nell’ auto-determinare il mio percorso. L’unico compromesso che faccio è la mediazione culturale che mi permette di comunicare ad Addis Abeba come a Tokyo, a Jujuy (Argentina), e New York, a Orani e nella Medina di Tunisi. Suono ogni sera cercando di sorprendermi in base agli umori, al contesto, al suono dell’impianto, al pubblico che mi trovo di fronte. Sono sicuro che questo messaggio di onestà intellettuale, l’assenza di generi precostituiti, la voglia di comunicare una musica senza steccati con una modalità di condivisione sociale arrivi anche ad un pubblico non necessariamente di addetti ai lavori. Ed ho una certezza: il rito antico quanto l’alba dei concerti non potrà mai essere sostituito dall’onanismo dello streaming”.
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autore: Marco Sica