A quanto pare a Kele Okereke, al secolo leader e cantante dei Bloc Party, piace mettersi in gioco. Dopo The Boxer, esordio solista, aveva sfornato Trick, nel 2014, che come dice la parola sembrava uno scherzo, dato che aveva tirato fuori un’anima dub e elettronica.
Ora, con Fatherland, forse perché segnato, come dichiara, dalla prossima vita da padre, scavando anche nelle sue origini nigeriane pubblica via BMG un album acustico, vicino al soul e con sfumature swing (Grounds for Resentment, Do U Right).
“Sto finendo un disco nuovo, sarà un album solista che però sarà molto diverso da quanto ho fatto in passato. In questi anni con i Bloc Party sono passato dalle chitarre a composizioni più elettroniche, ma questo disco ne sarà l’opposto. E’ qualcosa di molto intimo, dedicato a mio padre”. Così dichiarava mesi fa. Ma lo stesso Kele accenna ora invece a quanto il titolo sia legato anche all’arrivo di un figlio: “Ho sempre voluto essere padre e mi sento molto fortunato perché anche il mio compagno lo vuole. Molti uomini gay non vogliono avere figli, a me invece è qualcosa che è sempre mancato”.
Insomma il disco ruota intorno al tema della paternità: auguriamo a Kele il miglior futuro possibile come padre, ma per ora come musicista solista anche questo disco non convince troppo. Vi sono momenti intesi, venati di malinconia e tristezza, puramente acustici e arpeggiati, come Streets Been Talkin, Versions of Us abbellita dal duetto con Corrine Bailey Rae, e soprattutto Yemaya, il primo singolo, sincera composizione acustica dai toni epici e profondi, ma nella prima parte non c’è molto altro da sollevare all’onore delle cronache, tranne forse You Keep Whispering His Name. Poi nel finale si torna all’acustico, e Road to Ibadan e Savannah sono di nuovo canzoni dolci e intense, come acustica e folk è anche la divertente New Year Party, ma resta che l’album è in sé poco vario nel ritmo, fondamentalmente lento, se non addirittura moscio. Certo è un disco acustico, ma anche i dischi acustici sanno avere dinamica e anima: cosa che qui sembra in alcuni tratti mancare. Bisogna certo riconoscere e applaudire la foga sperimentale di Kele, che lo porta verso direzioni molto diverse da quanto fa con i Bloc Party, variando di disco in disco, ma c’è poco in questo ennesimo esperimento da far saltare sulla sedia. Del resto anche Hymns, ultima fatica dei Bloc Party, non ha esaltato. Di certo l’anima folk e acustica gli compete molto più di quella dub, e qua e là nel disco si troveranno pezzi amabilmente ascoltabili. Ma non indimenticabili.
autore: Francesco Postiglione