I Built To Spill sono uno dei gruppi meno “cool” in circolazione. Grazie a Dio. Lo si capisce anche dal pubblico che ciondola tra il bar e il banchetto del merchandising prima del concerto: ragazzi non-più-tanto-giovani mai usciti dagli anni ’90 e impiegati di mezz’età ancora in tenuta “da ufficio”.
Vestiti in maniera non meno anonima dei loro fan, senza la ben che minima scenografia, e – nel caso del frontman Doug Martsch – sfoggiando un’impietosa calvizie, i nostri iniziano a suonare con un quarto d’ora d’anticipo rispetto all’orario previsto. Niente fronzoli, niente convenevoli, e un trittico in apertura (“Three Years Ago Today”, “Goin’ Against Your Mind” e “In The Morning”) che mette in chiaro sin da subito la natura del concerto di stasera: sarà “semplicemente” un viaggio nel loro repertorio, a venti anni esatti dall’esordio, senza alcun intento promozionale (sono passati ormai quattro anni da “There Is No Enemy”, l’ultimo disco in studio).
Stasera, in un Electric Ballroom tutto esaurito, c’è spazio solo per le inconfondibili canzoni dei Built To Spill: tenere e agrodolci, elettriche e inquiete.
La voce di Martsch (unico membro originario della band assieme al chitarrista Brett Netson) è immutata, immune al passare degli anni, con il suo distintivo tono stridulo, sempre perfetta nell’adagiarsi sul potente intreccio sonoro creato dalle tre chitarre sul palco. “Classici” come “Reasons” e “Else” mandano in delirio i fan; ma anche le più recenti “Planting Seeds” e “Hindsight” non sfigurano affatto. La lunghissima coda strumentale della psichedelica “Velvet Waltz” mantiene tutti col fiato sospeso, raccogliendo applausi a scena aperta, “Carry the Zero” è da brividi lungo la schiena. La comunicazione col pubblico è in pratica nulla, e le pause tra le canzoni sono spesso dilungate a causa della necessità di accordare le chitarre. Ma credo che nessuno stasera si aspettasse dei grandi intrattenitori, sul palco. Nei bis trovano spazio due cover, una splendida di “(Don’t Fear) The Reaper” dei Blue Öyster Cult e una non particolarmente elettrizzante di “How Soon Is Now?” degli The Smiths. Ottimo concerto, ma non uno di quelli che sai che ricorderai per tutta la vita: sarà stata la “compostezza” del pubblico inglese che non avrà fatto esaltare più di tanto la band, o un po’ di stanchezza accumulata durante il tour, ma l’impressione è che stasera sia mancato quel “quid”, quella “scintilla” capace di fare la differenza.
autore: Daniele Lama