Solo una semplice ed accattivante coincidenza. Vittoria della Champions League e tre giorni di musica imperdibile. Tutto questo a Barcellona, capitale della Catalogna e “città eldorado” per i giovani di tutto il mondo, tra il 27 ed il 30 Maggio. Non sappiamo quale dei due eventi abbia avuto più entrate ma, ipotizzando una stima parziale sul numero degli scontrini dei bar per le birre vendute, siamo sicuri che sono state migliaia. La sera del 27 maggio, camminando per le stradine del Raval, quartiere a maggioranza pakistana e marocchina, abbiamo assistito ad una classica festa nazionalpopolare e post-finale di Champions League (tra l’altro vinta). Strade vuote bagnate da una tensione crescente durante la partita. Silenzio totale intervallato da esplosioni di gioia ed esclamazioni di stupore risuonavano nell’aria. Un po’ come le partite di Italia 90 godute nell’estate torrida dei paesini siciliani. Fino alla fine della partita quando il silenzio è esploso ed è diventato delirio. Un delirio che ha visto ballare per i vicoli della città anziani catalani con giovani marocchini e signore pakistane con signori sudamericani. Le solite macchine truccate strombazzanti e le solite fiumane di persone estasiate. Il tutto unito alla spensieratezza e voglia di “festeggiare” degli spagnoli che con la vittoria della Champions League hanno avuto quello che volevano. Tra l’altro mentre camminiamo per il Raval arriviamo al Teatro Apolo dove, guarda caso, si inaugura ufficialmente il Primavera Sound 2009 con un concerto d’apertura che vede i romani Zu e gli americani Dalek esibirsi. L’affluenza di pubblico dimostra che non tutti erano in strada a festeggiare la vittoria ma hanno preferito l’industrial/noise/hip hop di Dalek e la concretezza live degli Zu, non a casa considerati tra le migliori live band d’Italia. E lo hanno confermato anche a Barcellona esibendosi in maniera perfetta e capaci di meravigliare anche il freddo pubblico catalano. Notevole il finale dove Dalek e Zu hanno suonato insieme concludendo la serata perfettamente.
Il giorno successivo ci trasferiamo al Parc del Forum, complesso sterminato in riva al mare e architettonicamente minimale ed industriale, passando per una Barcellona stanca e con i postumi della sbornia ma che non ci nega una giornata di sole limpido e non eccessivamente calda. Incontriamo persone completamente diverse da quelle della sera prima ed estranee ai festeggiamenti calcistici. Giovani delle più svariate nazionalità con occhiali dalla montatura nera e spessa, capigliature “coraggiose” e vestiti colorati, rigati ed attillati che si aggiravano tra i cinque palchi sapientemente distribuiti nell’area. Iniziamo con i Lightening Bolt che aspettavamo suonassero ad altezza pubblico come fanno di solito ma erano su un palco. Ciò non gli ha impedito di sfornare un live a dir poco devastante, veloce e disturbante. Il batterista Brian Chipperdale con sei braccia ed un microfono incastonato in una maschera in stile “IT” creava la struttura e farfugliava mentre Brian Gibson saturava l’aria con il suo basso distorto e polifonico. Ottimi. Poco dopo è stato il momento degli Yo La Tengo. Il tempo di ascoltare sei canzoni, tra cui una meravigliosa “Stockholm Syndrome” cantata a squarciagola dai molti presenti, e di apprezzare l’animo sempre verde della storica band indie del New Jersey e scappiamo verso i mitici Jesus Lizard, versione selvaggia dei Fugazi e band seminale nel post-hardcore anni ’90. David Yow è un pazzo, attempato e con la panza esposta di chi non se ne frega. “Puss”, “Monkey Trick” e “Glamorous” sono solo alcune delle canzoni che hanno reso questo show devastante ed adrenalinico dando l’impressione di assistere a “qualcosa di unico”. La classe degli anziani non si compra soprattutto quando vedi un cinquantenne che si lancia a peso morto tra il pubblico, aizzandolo e coinvolgendolo.
Ma arriva, poco dopo, il momento dei My Bloody Valentine. C’è sempre l’emozione della “prima volta”. La band anglo-irlandese non delude le aspettative create anche grazie ai tappi per le orecchie distribuiti all’ingresso. E’ emozionante vedere Bilinda Baxter, impeccabile nello stile, intrecciare le proprie chitarre con quelle del presumibile compagno Kevin Shields. Come ascoltare, del resto, “Only Shallow”, “When You Sleep”, “Cigarettes In Your Bed” e “I Only Said” in una sorta di ipnosi collettiva forse conseguenza diretta della sbornia cittadina del giorno precedente. Le atmosfere sognanti e gli intrecci showgaze della band anglo-irlandese sono una esperienza unica. Peccato per una batteria troppo alta e le voci troppo basse. Mai così adatti i tappi per le orecchie durante i 20 minuti finali di noise che hanno mutato l’ipnosi collettiva in conflitto sonoro. Conflitto sonoro che ti impedisce di pensare e che sembra quasi l’unica cosa non meditata all’interno del Primavera Sound. Non pensare e non meditare su come questa città dei balocchi con il suo festival annesso pensi proprio a tutto. Pensi a come inserire il negozio Ray Ban all’interno del festival e a come proporre e sponsorizzare Estrella e sigarette in qualsiasi modo, dal palco con tal nome fino alla vendita monopolizzata in tutti gli stand. Quindi fortuna che i My Bloody Valentine abbiano pensato a non farci pensare. Concludiamo la serata con la delusione maggiore del Primavera Sound. Aphex Twin che ha intrattenuto il pubblico presente e adorante con un dj set innocuo quasi da Buddha Bar. Certo è sempre Aphex Twin, la tecnica non manca come la capacità di far ballare. Ma dalla mente malata produttrice di capolavori del disagio come “Come to Daddy”, “Selected Ambients Works” e “Richard D. James” ci si aspettava qualcosa di più “cattivo”. Ed invece no. Pazienza.
Il secondo giorno Barcellona comincia a riprendersi dalla sbornia e, lentamente, inizia a carburare. La solita vivacità del venerdì, per intenderci. Il sole non abbandona la città e durante il giorno, prima dei concerti serali, si gode di una bella arietta di fine primavera. E c’è poca voglia di andare troppo presto al Primavera Sound anche perché il secondo giorno è quello meno interessate o forse solo meno “denso” di proposte pomeridiane. Bat for Lashes, icona di riferimento per lo stile della maggior parte delle ragazze presenti, e Sunn 0))) il cui stage era composto da una muraglia cinese fatta di amplificatori. Validi. Fortunatamente arriva la sera e con la sera, si sa, l’aria diventa più frizzante. E quindi arriva il momento di Jarvis Cocker, perfetto nello stile e nella capacità di suonare ciò che è nelle sue possibilità. Uno show degno di nota, figlio di una carriera importante. Il cantante sembra a tratti indemoniato esibendosi in balli d’ogni sorta e concludendo la performance con la bella “You Are In My Eyes” dal gusto disco-pop. E sempre con la sera arriverà il meglio della seconda giornata. Prima gli Shellac del produttore Steve Albini (immaginiamo non abbia bisogno di presentazioni). Il sound non è dei migliori ma la compattezza e la concretezza dei musicisti sopperiscono alle carenze tecniche del sound. Un sound figlio degli anni ’90 e che ha nell’approccio diretto e non tecnicista la sua forza. Ipnotica “The End Of Radio”, potente e geometrica “My Black Ass”, una nenia contemporanea “Prayer to God”. Fortuna che esistono. Perchè se speriamo di concludere il secondo giorno del Primavera Sound con i Bloc Party stiamo freschi. Il tempo di assistere ad un paio di canzoni e capiamo l’antifona. La band che un tempo era capace di unire wave colta e senso del ritmo contemporaneo è scomparsa. Insomma i tempi di “Helicopter” sono cambiati. Adesso i Bloc Party sono un gruppo dance con un cantante ammiccante, sorridente e carino ma, soprattutto, senza voce.
Arriviamo al terzo ed ultimo giorno. Liars monotoni ed Oneida una vera e propria delusione forse figlia dell’ultimo album davvero poco convincente. Neil Young stratosferico ed interessante l’idea di vendere un biglietto separato per il solo show del cantautore canadese. Conseguenza diretta è la simpatica presenza di splendidi 50enni, sorridenti e ballanti, durante il concertine che la Spagna aspettava da 22 anni. Prima parte rovinata da suoni sconclusionati e seconda parte perfetta con una conclusione degna di una rock star con la beatlesiana “A Day In The Life” e la rottura della sua sei corde. Niente male. Subito dopo è il momento dei Sonic Youth. Vera conclusione della tre giorni catalana. Un set perfetto e, a dimostrazione della sicurezza nei propri mezzi, incentrato su un disco ancora non pubblicato e dal fortissimo impatto. Più danzereccio tra l’altro e quindi perfetto per ringiovanire se stessi e il pubblico presente in vena di rock n’roll. “No Way”, “Poison Arrow” e “Antenna” sono state da subito interiorizzate ed apprezzate dai presenti. Momenti di commozione sull’esecuzione più che perfetta dei classici come “Teenage Riot” e “The Sprawl”. Impressionanti.
Il Primavera Sound finisce e si torna a casa con la sensazione che tutto è andato sommariamente bene. Presi singolarmente alcuni concerti sono stati mastodontici. Certo nell’economia di un festival c’è sempre qualcosa che va meno bene. Ci può stare. Se accettiamo il negozio Ray Ban e un pubblico non certo eterogeneo ma discretamente elitario ed una atmosfera generalmente costruita e poco genuina e ci si concentra semplicemente sulla musica non ci si lamenta. Tutto bene.
Autore: Andrea Belfiore
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