Quest’anno il Neapolis, o quantomeno il cuore di esso, ritorna a Napoli, come nelle migliori fiabe. Il protagonista, dopo lungo errare, dopo incontri e scontri, dopo avventure e amori, torna sempre a casa. L’Arenile, storico luogo di concerti, ha accolto quello che per anni è stato il principale festival del sud-Italia. Due headliners non di poco conto: Tricky, il primo giorno, Kings of Convenience, il secondo, supportati da poco più di una mezza dozzina di band, emergenti e non, di buon livello.
Si inizia alle 19:00 del giovedì, con gli Unhappy, napoletani (come molti altri, d’altronde), a cui tocca aprire le danze, di fronte ad una sparuta manciata di persone. Sudano molto e, nonostante il caldo e il pubblico inesistente, danno comunque il massimo, lasciando posto ai Motosega. Nati dallo strascico degli Andy Fag & the real men (non nuovi allo stage del Neapolis), offrono un punkrock veloce e melodico, con una bella tenuta di palco. Tocca così ai Fiberglass, bella scoperta di questa edizione. Un pop-rock elettronico ben curato che si adagia ottimamente nel contesto pre-serale: il tramonto sul mare, il prato alle spalle, il cielo che diventa sempre più scuro. Di pubblico, però, neanche l’ombra. Stessa storia per i Soviet Soviet, che già da anni calcano palchi di tutto il mondo. Grande tenuta di palco ed ottima esecuzione: un’oretta scarsa di divertimento per i pochi (un centinaio, forse) accorsi. Non mancano di segnalarlo, dal palco, così come non celano il dispiacere di dover abbandonare lo stage.
Con il calare della notte, arriva il turno di Tricky. Basta poco per fare in modo che l’ambiente si riscaldi: già dopo il terzo brano, l’artista inglese chiede al pubblico di salire con lui sul palco. Difficile, considerando le poche centinaia di anime presenti, ma fortunatamente il trick funziona e l’iniziale diffidenza (dovuta principalmente ad una platea praticamente vuota) svanisce come un brutto sogno. Lo show continua per un’oretta abbondante e si va a dormire sudati ma soddisfatti, almeno per quanto riguarda l’offerta musicale.
Già dal pomeriggio del secondo giorno, si intende che la situazione è cambiata. Un po’ di fila al botteghino, qualche sguardo più entusiasta e intorno alle 19:00, sale sul palco Liprando, chitarrista della più nota surf-rock band Bradipos IV. C’è già più gente, principalmente interessata ad assicurarsi un posto nelle prime file per l’esibizione dei Kings of Convenience, piuttosto che ad assistere alle esibizioni di apertura, ma il mood è decisamente migliore. Aggiunta dell’ultimo minuto, i 2TooDrums continuano lo show, ma sfortunatamente la loro proposta non riesce a convincere molto, passando piuttosto inosservati. Ci pensano gli I Used to be a Sparrow (anche sul palco della scorsa edizione Giffoniana) a riportare alto il livello. La loro pasta sonora è tra le migliori e più stratificate della due giorni napoletana ed è un vero piacere ascoltarli, nonostante l’afa. Piacciono parecchio e si iniziano a sentire, finalmente, i primi timidi applausi. Il livello si mantiene alto con i Fitness Forever, in una formazione completamente stravolta rispetto a quella originale di qualche anno fa. Fortunatamente, si potrebbe aggiungere. Il loro sound, infatti, è molto più articolato e ben definito della loro precedente proposta, si fanno ascoltare con piacere e sembrano rinnovarsi continuamente, non lasciando mai posto alla noia. Molto bravi e piacevoli, senza ombra di dubbio.
Sul palco, prima dei KoC, Beatrice Antolini in forma smagliante. Fa ballare dando il buon esempio: non rimane ferma un istante, cambiando continuamente strumento. La sua proposta è di eccellente fattura, divertente ma non stucchevole. Il pubblico (quasi sulle mille unità) apprezza moltissimo ed è un dispiacere vederla abbandonare il palco, dopo un’oretta di esibizione. Tra le più azzeccate del cast di quest’anno, senza ombra di dubbio.
Dopo una mezzoretta di stop, i Kings of Convenience guadagnano il palco. Iniziano con un set semiacustico molto ben curato ma che, alla lunga, fa perdere l’attenzione. Simon and Garfunkel caricati a camomilla piuttosto che a caffè nero, piacevole ed entusiasmante per i fan più accaniti, molto meno per chi, invece, da un live cerca qualcos’altro. Per fortuna, dopo circa una decina di brani, come richiamati da una voce invisibile di chi era prossimo al collasso, compaiono sul palco altri musicisti e il set diventa più interessante e coinvolgente. Il pubblico, continuamente in delirio (con tanto di urla stridule e applausi apparentemente immotivati), apprezza moltissimo fino alla fine, non mancando di dimostrarlo continuamente, forse in maniera anche troppo evidente.
Raccontato così, questo Neapolis, sembra essere stato un successone. In effetti lo sarebbe stato, se si fosse trattato di un piccolo festival di provincia, alla sua prima o seconda edizione. 10 band, due headliners di rispetto, una bella location. Ma purtroppo, e duole davvero molto dirlo, non è stato così. Un migliaio e mezzo di presenze, per quello che dovrebbe essere il fiore all’occhiello della musica dal vivo da Roma in giù è già un fallimento senza termine di paragone. Il motivo di tutto ciò è da ricercare, sicuramente in molteplici fattori interrelati tra loro. Ma al di là delle solite analisi, a chiosa di ogni edizione del Neapolis, più semplicemente, quest’anno non si respirava la classica aria da grande festival. L’atmosfera da lounge bar che tenta di raccogliere un po’ di pubblico in più montando un palchetto e facendo suonare qualche gruppetto appena formatosi, era tutto ciò che si riusciva ad assorbire una volta varcato il cancello al botteghino. Al grande mosaico sono mancati molti dei tasselli che fanno da struttura portante all’intera manifestazione, a partire dal cast, per finire alla location.
L’anno scorso, così come due anni fa, il costo del biglietto (la barriera d’ingresso principale per il pubblico napoletano abituato a ticket di pochi euro per una semplice esibizione di un solo artista) non poteva essere preso in considerazione come elemento di disinteresse in quanto il carnet di artisti presenti (e le numerosissime promozioni) lo giustificava completamente.
Non che le band di apertura siano state di bassa qualità, ma qui si parla del Neapolis. Il respiro internazionale che dovrebbe contraddistinguere l’eccellenza tra i festival da Roma in giù, si è sentito (oltre che ovviamente negli headliners), solo in alcuni, sporadici, casi. Inutile parlare dell’incredibile carenza di pubblico che, rapportata alla scelta della location, sembrava un fattore più che previsto. Ci si chiede, allora: che senso ha mettere in moto una macchina di dimensioni gargantuesche come il Neapolis, se la si vuol far correre a 30km all’ora? Si hanno ancora le forze per gareggiare nell’offerta di qualcosa che, a quanto pare, è ben fuori dalla propria portata? I numeri, purtroppo, non ci sono più: è un dato di fatto che resta evidente tornando a casa e pensando che, seppur in calo, solo nelle recentissime edizioni, migliaia di persone hanno assistito a esibizioni di nomi, ordine sparso, del calibro di Underworld, Architecture in Helsinki, Mogwai, Is Tropical, Dinosaurs Jr, Kraftwerk, Jamiroquai, Kasabian… E che l’anno scorso come apertura dell’apertura, col sole alto in cielo che seccava il terreno del campo sportivo di Giffoni, vi erano gli Azari & III.
Circa un anno fa aprivo scrivendo “Potete chiamarlo Giffoneapolis, se vi fa piacere”. Quest’anno ho difficoltà a chiamarlo anche, semplicemente, festival.
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autore: A. Alfredo ‘Alph’ Capuano