Continua ad essere intrigante ed appasionante il percorso musicale intrapreso dai Motorpsycho che dopo venticinque anni di carriera non ha minimamente perso il suo smalto. Il trio norvegese non si è mai ripetuto ma ha sempre teso ad evolvere il suo sound, vuoi con spinte verso un certo hard rock, vuoi verso il grunge o verso la psichedelia. Negli ultimi anni il trio si è assestato su un hard rock psichedelico, ma sempre pieno di sfumature, mai ripetitivo. L’approccio alla musica del trio, infatti, è quello delle otto ore di lavoro giornaliere, cinque giorni la settimana, come fossero degli impiegati. In queste quaranta ore settimanali il trio sperimenta, suona, rielabora, ragiona, si scazza, ma alla fine ogni disco che produce è un lavoro intelligente e soprattutto onesto, frutto di un lungo lavorìo. Ogni brano è strutturato, studiato, ragionato e nulla viene lasciato al caso, cosa che si è verificata puntualmente anche in “Here be monsters”.
Questo disco è tutto centrato sulla psichedelia a cavallo degli anni ’70. I brani sono stati concepiti per le celebrazioni del Norvegian Technical Museum, insieme a Stale Storlokken, con cui il trio aveva pubblicato il disco del 2012 “The death defyning unicorn”. Tuttavia, le parte di synth e organo nel disco sono state suonate da un altro collaboratore del trio, Thoma Henriksen. Proprio il pianoforte è lo strumento, unico, protagonista del brano di apertura, “Steepwalking”, che lascia spazio alla pinkfloydiana “Lacuna/Sunrise”, in cui i Motorpsycho si lasciano andare un sound morbido ed avvolgente, che poi evolve verso uno psychedelic-rock con un basso particolarmente graffiante e con la chitarra in libera uscita.
La successiva “Running with the scissors” ha un sound che non si discosta più di tanto restando in ambito psichedelico, ma si sfiorano i territori del prog. “I.M.S.” (Inner Mounting Shame) è un’affasciante cavalcata elettrica molto anni ’70, cantata con la giusta dose di pathos, a seguire “Spin, spin, spin”, una cover del cantautore nero californiano Terry Callier, in cui si respira tutta l’aria del flower power e del viaggio. Infine “Big black dog” una lunga suite di poco meno di diciotto minuti, brano che parte soft e che si intensifica gradualmente e lentamente, nel quale sono presenti più elementi: psichedlia, prog, hard rock e riusciti intrecci organo-chitarra.
Lasciatevi affascinare da questo gruppo che in venticinque anni non ha fatto un passo falso!
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autore: Vittorio Lannutti