I fratelli Marino e Sandro Severini hanno da poco pubblicato, insieme a Massimo Priviero e Daniele Biacchessi “Storie dell’altra Italia”, con il quale hanno festeggiato, a modo loro, i 150 anni dell’unità d’Italia con uno spettacolo teatrale; da questo spettacolo nasce il doppio cd live che recentemente abbiamo recensito.
Abbiamo colto l’occasione di intervistare Marino Severini che si è mostrato molto disponibile e generoso non solo nel parlare del percorso che sta intraprendendo insieme al fratello, compresa la prossima pubblicazione di un disco di inediti della Gang, ma anche di come la canzone di protesta può ancora svolgere un’importante azione per contribuire a cambiare l’esistente.
Come Gang avete intenzione, prima o poi, di pubblicare un disco di inediti?
Fare un “disco di inediti” o comunque fare un disco, significa per prima cosa sbattersi completamente di ogni regola o consuetudine o pessima abitudine come quelle di pubblicarne comunque uno o due all’anno, seguendo, come un gregge, una routine imposta da regole di mercato e affini… anche se poi il disco nuovo non è altro che una riedizione di quello precedente.
I dischi vanno fatti sempre al momento giusto, cioè quello in cui potrebbero servire, essere utili rispetto alle dinamiche culturali in corso, altrimenti sarebbe solo una zavorra, un peso inutile o peggio un “ciaffo”….e servirebbe solo ad essere presenti sul mercato ma non nella realtà vera, nella Vita e quindi nel proprio Tempo!
Al disco “di inediti” che si chiamerà “Sangue e Cenere” comincerò a lavorare in autunno perchè possa uscire per l’anno successivo…è un disco al quale tengo molto perchè sono 12 anni che non facciamo un disco di inediti, per cui ho bisogno di preparare le condizioni migliori per lavorarci con calma e bene! Voglio però aggiungere che alla mia età io sono prossimo alla “pensione “ e la mia si chiama libertà. E’ la ma conquista, la mia “pensione” dopo una vita di Canzoni. E non ci sono ragioni ne’ di pubblico ne’ di mercato per le quali io possa rinunciarci, alla “pensione” naturalmente.
Da un punto di vista discografico continuerete a ppercorrere la strada intrapresa negli ultimi anni?
Come dice il Profeta: “Il Futuro non è scritto!!!”, quindi è inutile fare profezie in questo senso.
Mi piace molto l’idea di realizzare molti lavori “stagionali” come fossero prodotti del proprio orto! Con una logica da casa discografica questo sarebbe impossibile e invece con un supporto di una etichetta indipendente come Latlantide finalmente sono riuscito a realizzare quello che non ha niente a che fare con le solite “logiche”. Scartare di lato per proseguire, ecco, questo sarà un modo, uno stile anche per il futuro, quindi ogni 6 mesi massimo far uscire un lavoro dal cantiere, dall’Officina dei Gang, questo si, questo mi piace continuare a farlo.
Con Latlantide che tipo di rapporto avete, dato che dopo l’esperienza in Wea dicesti che non avreste più firmato per nessuna etichetta?
Una cosa è la Wea, cioè una multinazionale, ed un’altra è Latlantide, che è una etichetta piccola piccola e a conduzione familiare. Io non firmo più con nessuno, ma questo non significa non assumersi responsabilità o stabilire dei rapporti di collaborazione per realizzare determinati progetti. Con Latlantide mi trovo molto bene, sono amici con i quali si fanno e si realizzano dei progetti in comune, nel rispetto e con la stima reciproci. Una sorta di autoproduzione fatta con degli alleati, dei complici, niente di più e niente di meno.
Come è nato l’ultimo progetto teatrale, quello con Bianchessi e Priviero?
Come tutti i progetti che ci vedono coinvolti, vale a dire per Strada. Anche questo è nato a forza di incontri lungo le strade d’Italia, quattro chiacchiere nei camerini, seduti al tavolo di un bar fino al farsi dell’alba, tra un bicchiere e mille sigarette. Nasce dal piacere di mettere insieme dei materiali comuni, delle esperienze, per farne poi un Viaggio, una Narrazione, un Fuoco attorno a cui sedersi e vincere il freddo, la notte, la paura. Questo progetto io lo considero come l’Incontro anzi lo sfociare di tre torrenti in un grande fiume. Vedremo dove la corrente ci porterà. Io sono certo che ci porterà sempre a Casa, quella del Popolo!
Dal percorso che avete intrapreso negli ultimi anni sembra che abbiate ‘assunto il ruolo esclusivo di cantastorie, una sorta di Seeger-Ghutrie’ all’italiana. E il punk-rock dove è finito?
“Scrivo canzoni di protesta, quindi sono un cantante folk. Un cantante folk con la chitarra elettrica” (Joe Strummer). Penso che non ci sia risposta migliore alla tua domanda. Aggiungo però che sono sempre più stanco di questo persistere nelle classificazioni o nelle gabbie varie. Anche quando si tratta di stili, che col mio lavoro non ho fatto altro che cercare di far incontrare per farne… un’altra canzone. E’ come se io fossi in fuga da una vita e nello stesso tempo qualcun altro mi dia la caccia cercando di rinchiudermi in uno stile o in un personaggio o in una cartolina o in un’altra ennesima banalità. Le etichette o i generi come ho detto milioni di volte sono utili soltanto ai commessi dei negozi di dischi. Permette di mettere i dischi nello scaffale “giusto” in modo che ad una richiesta del cliente precisa il commesso può trovare in fretta e senza fatica il disco in questione. Quanto al punk per fortuna è tornato a casa, quella del popolo e della sua cultura e della sua Canzone.
Attualmente su quale progetto state lavorando?
Per fine maggio uscirà un cd, più dvd del concerto che abbiamo tenuto a Filottrano in piazza Mazzini organizzato dai Filottrano City Rockers per i 20 anni de “Le Radici e Le Ali”. Ma, ripeto il nostro “lavoro” continua ad essere quello di viaggiare cantando per il Paese. Saranno gli incontri a dirci cosa e come fare.
Che cosa stai ascoltando in questo periodo? Che cosa pensi di “Wrecking ball” di Springsteen? E dell’ultimo lavoro della Banda Bassotti? Prima o poi tornerete a fare qualcosa insieme?
Sono due lavori che risentono di una sorta di appartenenza ad un popolo. E sia Springsteen che la Banda Bassotti cantano la loro appartenenza attraverso le storie degli sfruttati, dei subordinati, di coloro che lottano ogni giorno per arrivare alla fine della giornata. Gli stili sono diversi ma è la stessa canzone. Non posso che pensarne BENE! di entrambi i lavori.
Perché pensi che in Italia ci sia bisogno di artisti/musicisti che ricordino gli episodi salienti della storia contemporanea?
Penso che ci sia bisogno ovunque, non solo in Italia di artisti che cantino le storie tratte dal proprio popolo. Ma bisogna essere chiari su una questione di fondo: non sempre viene colta in questo ambito. Non ho dubbi sul fatto che alcune canzoni possano contribuire a realizzare la rivoluzione, ma prima forse bisogna chiarire cosa intendo – io – per rivoluzione.
Per dirla con le parole del profeta Pier Paolo Pasolini: “La rivoluzione non è più che un sentimento”. Potremmo cominciare da qui, da questa prospettiva. Cosa fanno allora oggi le canzoni dei Gang, se non mantenere vivo il sentimento della memoria, o meglio ancora: cosa cercano nel loro viandare, se non un ritorno al fuoco di una nuova appartenenza, condizione indispensabile e primaria del sentimento (prima ancora della coscienza e della consapevolezza) della libertà?
Ogni rivoluzione, per dirla con Gramsci, è un processo, non un atto, quindi un cammino!
Le canzoni dei Gang affermano contemporaneamente il luogo da cui proveniamo e quello verso cui stiamo andando. Ma occorre non aderire al canto delle sirene, alla confusione tipica del postmodernismo che svuota ogni funzionalità, e di conseguenza riaffermare un ruolo della canzone. E con esso una sua identità.
Che cosa significa per te appartenere ad una causa comune?
Io appartengo ad un umanesimo contadino, quindi per me è bello ciò che è utile e viceversa. E’ Maurizio Maggiani che ce lo ricorda, in quel bellissimo libro che è “Il viaggiatore notturno”: “Père Foucauld – scrive – pensava che il centro dell’universo nella sua assoluta semplicità fosse ricco di cose utili e riteneva che Bellezza e Utilità fossero un tutt’uno, un tutt’uno che aveva a che fare con Dio”.
La canzone è sempre una soluzione semplice ad un problema complicato. Ma se è ben fatta, come tutte le cose ben fatte, è utile bellezza.
Molte delle canzoni dei Gang sono storie cantate. E molto spesso sono storie di “banditi”, o meglio di fuorilegge. Per fuorilegge intendo colui che viola le leggi per affermarne il principio, non un predatore. E questa è già una presa di posizione rivoluzionaria. Perché le storie sono la vera grande ricchezza di un popolo. Non è vero che la storia siamo noi. La storia appartiene da sempre ai vincitori. Chi vince è la storia, o meglio si impossessa della storia e la impone con gli strumenti che ha a disposizione: quelli del potere, che siano le armi o le comunicazioni di massa, la differenza è poca. Noi allora cosa abbiamo? Noi abbiamo le storie, che fanno un’altra storia: quella degli ultimi (che sono e saranno i primi) o meglio ancora, quella dei vinti. Ma proprio perchè noi non dimentichiamo l’esclusione, lo sfruttamento, le umiliazioni e le violenze subite significa che siamo…invincibili! Pronti a una nuova rivoluzione. E allora mantenere vivo il sentimento della memoria significa lavorare per la rivoluzione.
Quello che più mi preme affermare in questa prospettiva è che la nostra rivoluzione non è certo quella che è stata già consumata, quella industriale. La nostra rivoluzione consiste oggi soprattutto nel riconciliare la Terra col genere umano! Ed è all’interno di questo processo rivoluzionario che il lavoro deve trovare una sua nuova centralità e una sua liberazione dallo sfruttamento e dall’alienazione.
Un lavoro che produca ricchezza, non merci che affannano il respiro del mondo, ma beni. E noi siamo già da questa parte del fiume, intenti a costruire la città futura, facendo questa rivoluzione. Le nostre storie cantate, il nostro canzoniere è utile in quanto fornisce un bene culturale, non ha niente a che fare con la merce, e cammina, viaggia, in territori lontani da quelli del Mercato e dal suo pensiero unico. Per farla breve: mentre per le merci l’interlocutore è il mercato, per i beni culturali l’interlocutore è la politica. E occorre quindi ristabilire un ordine nuovo fra queste differenze di fatto e non un guado attraverso il quale si possa passare dall’una all’altra.
Come pensi che si possa uscire dalla situazione socio-politica nella quale siamo invischiati e dalla quale sembra impossibile uscire? C’è per te una vita d’uscita?
Penso che noi oggi non abbiamo bisogno di politici ma di pontefici, cioè di costruttori di ponti fra le culture, i costumi, le religioni, le leggi. Non si tratta di sostituirsi alla politica ma di combattere una lunga e dura battaglia culturale che sia già una rivoluzione nel suo divenire, nel suo camminare. Poi, a ponti fatti, la politica tornerà ad essere quella che è stata un tempo: l’arte della mediazione, non fra poteri ma fra sogno e realtà.
Nelle nostre canzoni ho sempre cercato di costruire dei ponti fra gli strumenti indispensabili alla costruzione del futuro di questo paese, attraverso le sue tradizioni che sono ancora vive. Ed è proprio dall’incontro fra tre grandi tradizioni che si sta realizzando una nuova rivoluzione.
La tradizione cristiana – quella dei Ciotti, Zanotelli, Puglisi, Balducci, Milani, tanto per fare qualche nome -; la tradizione comunista – con una visione della democrazia diversa da quella borghese, si pensi ai consigli di fabbrica, alle case del popolo, alle prime società di mutuo soccorso.
Infine la tradizione delle minoranze: quella delle sinistre eretiche, dei cantori come Pasolini o Pazienza, quella dei movimenti per “un altro mondo è possibile”, quella del femminismo e – in piccola parte – anche la minoranza che ha generato in Italia la rivolta dello stile.
E’ da qui che provengo anch’io, in quanto ho cercato di riallacciare le culture della minoranza italiane con il rock’n’roll, ossia la più grande rivoluzione del 900 insieme a quella dei soviet del ‘17 e a quella della Teologia della Liberazione.
In ogni nostra canzone avviene l’incontro, il confronto e la condivisione di un immaginario comune a queste tre grandi tradizioni italiane. “Una canzone è come un sogno che si cerca di rendere vero”, scrive Bob Dylan.
L’incontro, anche all’interno di un canzoniere come il nostro, fra queste tradizioni è già lavorare per la rivoluzione. Meglio ancora: per rivisitare, per tradurre nella realtà il Sogno, quello di una volta e per sempre. Lo stesso sogno che l’umanità, in fondo, ha sempre sognato. Ciò che cambia non è altro che il nome, la parola che l’annuncia. Una volta si chiama Terra Promessa, un’altra Il sogno di una cosa (come lo chiama un Marx ragazzino)…e adesso come si può chiamare, se non COSMOPOLI?! Ecco allora che se mai c’è esigenza di “messaggio” nel mio canzoniere (e nel mio lavoro) questo non può essere altro che quello di un avvento. Della venuta di una nuova Primavera, di quella stagione che questo paese aspetta come il bisogno più profondo: la stagione di un nuovo umanesimo. Quindi nel viaggio attraverso le canzoni dei Gang – oggi più di ieri – siamo arrivati alla seconda parte, quella del ritorno. Il ritorno a casa, alla casa comune, alla casa del popolo.
E le canzoni contribuiscono a quella grande narrazione che, come un tempo, oggi chiama per riprendere il cammino verso casa.
Nella nuova Rivoluzione stiamo lavorando per l’Unità, e proprio perché la nuova appartenenza non può prescindere da un nuovo rapporto e relazione con la Terra, la scoperta sta nel ritrovare l’elemento di sacralità che ci unisce, un elemento che non è solo competenza di fede ma anche di storia. Ciò che è sacro e che ci fa riscoprire il senso dell’umanità, il punto che è limite e soglia contemporaneamente, oggi ci viene rivelato anche dal cammino della e nella storia.
Ed il territorio dove oggi il conflitto si rivela è molto più ampio rispetto alle rivoluzioni passate. Oggi la domanda di sempre – da che parte stai? – diventa inevitabilmente più precisa, si amplifica enormemente e diventa: stai dalla parte del denaro o dalla parte dell’eternità?
Con le nostre canzoni la risposta è quella comune alle nostre tradizioni: dalla parte dell’eternità. Come più o meno diceva Patti Smith: “Se vuoi contribuire alla costruzione di una grande spiaggia devi portare il tuo piccolo granello di sabbia, potrà sembrare insignificante ma senza quello la grande spiaggia non si potrà mai realizzare”.
Io porto il mio contributo alla rivoluzione in atto con delle canzoni e le conduco per il Paese con fare da fuorilegge.
Autore: Vittorio Lannutti
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