Se non ci fosse di mezzo l’estro di un folle genio come Capossela, potremmo essere i primi a parlare di “canzoni a manovella”, e questo a proposito di quelle contenute nel debut album di Sierra e Bianca Casady, aka CocoRosie. Due sorelle vicine-lontane che dopo una vita (ancor breve) di lontane vicissitudini – artistiche e non – si sono ritrovate, quasi protagoniste di un arzigogogolo del destino, nelle stesse quattro, anguste mura, in quel di Parigi, 18mo arrondissement.
Presentazione, questa, doverosa in quanto, “La Maison de Mon Reve” lascia traspirare un forte “odore” di quiete, di quelle raggiunte a seguito di travagli in cui sembra dover restare ingabbiati per una vita e dai quali si esce, sudati, comunque per caso, per mano di quella stessa sorte che fino a poco prima aveva riservato, oltre a bizzarre esperienze, anche un senso di precarietà e di “sperdimento”. Un senso di redenzione con il proprio spirito e le proprie velleità, un tempo in cui le necessità interiori trovano finalmente coerenza e complementarità con un contesto esterno che, comunque sia fatto, è adesso luminoso, benigno, fonte di gioia incondizionata e apparentemente sprovvista di “termine”.
Tutto ciò trova manifestazione in una musica che non si concede, tuttavia, a del facile ottimismo, ma che si lascia trasportare da un incanto che, pur se memore, nella sua tiepida malinconia, dei recenti affanni, sembra passarli in rassegna con quel sollievo con cui si è consci del fatto che, quanto di tormentato possa essere accaduto, appartiene ormai al passato. E anche se può ritornare, non è questo il momento di temere questa eventualità. “Abbiamo sofferto, ma ora è tutto passato” sembrano profferire Sierra e Bianca con le loro voci infantili, angeliche, involontariamente seducenti, e distorte come se uscissero da una di quelle vecchie ed enormi radio di legno. E poi sì, vengono in mente – perenne vittima, chi scrive, di suggestioni geografiche – anche Parigi, la vecchia Europa, le nubi e la pioggia del nord, mentre in casa ciò che ha voce è “il costante sibilo del bollitore” (qui sono loro due che parlano). E le anime ormai siamesi delle due sorelline, immerse nel canto-lamento-ode del loro mutevole esistere.
Un simile quadro non necessita, come si può immaginare, di elaborate rifiniture sonore. Una chitarra acustica, un flauto. Sparute e scassatissime percussioni. Qualche improbabile sample o tastierina, distinguete voi se ne siete capaci, ma l’effetto è quello di rendere ancor più spiazzante queste 12 elegie. Il rosa confetto ma non sdolcinato dell’iniziale ‘Terrible Angels’ sembra pavimentare la strada al bettyboopeggiare della successiva ‘By Your Side’ (ma se usciamo dal mondo dei cartoon è Eartha Kitt la voce che ci viene in mente). ‘Jesus Loves Me’, nel richiamare le esperienze gospel di Sierra, invita anche la fede religiosa a questo stato di “pace cosmica”, laddove ‘Good Friday’ (e le successive ‘Not for Sale’ e ‘Madonna’) sa quasi di incredula felicità, con quell’interplay vocale in cui le ugole delle Casady si echeggiano, a volte quasi ironicamente, a vicenda.
E’ come aprire un vecchio baule sonoro, e più si soffia sulla polvere più emerge qualcosa che sembrava non potesse mai vedere la luce, e che lascia esterrefatti. Come ‘Tahiti Rain Song’, che a dispetto del riferimento geografico potrebbe incantare i serpenti prima che gli umani, o il carillon di ‘Candy Land’, con cui le Casady mettono a disposizione la loro particolare “ludoteca sonora”. E se ‘Butterscotch’ (fischiettabilissima) è l’essenza delle piccole-grandi beatitudini, l’ipnotica ‘Westside Connection’ è chiaroveggenza da luna park. Siamo in chiusura. Il beat “scrostato” di ‘Haitian Love Songs’ forse è l’unico lusso “mondano” (accenni di ballo) che possiate concedervi in questi 40 minuti, prima che il velo sottilmente mesto di ‘Lyla’ richiuda la struggente magia di questo scrigno. E’ quest’album la chiave per riaprirlo, siate o meno avvolti nel capriccioso meteo parigino.
Autore: Billy Bob and the Good Ole Maid