Sta diventando una piacevole esperienza confrontarsi con lavori discografici che pongono la voce femminile al centro della ricerca e della sperimentazione, sul solco tracciato dalle inarrivabili Meredith Monk, Joan La Barbara, Diamanda Galas …, argomento in parte già trattato su queste pagine quando si ebbe l’occasione di recensire “Saved!” di Kristin Hayter.
Ed è così piacevole confrontarsi con l’ottimo “The Obsession With Her Voice” (Constellation) di Erika Angell.
Avendo in precedenza scomodato nomi illustri, va subito chiarito che la Angell, differentemente da loro, non spinge le proprie corde vocali fino a “punte estreme”, prediligendo una dimensione sonora che contempera avanguardia e liricità, in un esatto equilibrio e crasi tra voce e musica.
Apre il Side A la splendida “Dress Of Stillness” che sferzata da venti postatomici fonde, con mirabile eleganza, le sequenze di elettronica con il suono acustico degli archi (in tutto il disco arrangiati da Jonathan Cayer) e con il canto che ondeggia in unisoni e in solo forte delle parole di Rainer Maria Rike tratte da “Poems from the Book of Hours”.
Un sibilo e una frequenza bassa sono (s)fondo per “Up My Sleeve”, prima che una crescente e angosciata ritmica conduca in “spazi” vorticosi: “The universe pulled me in once/I immedialtely denied it”.
Una pulsazione, un battito e poi umani e meccanici “versi” riempiono le parole di “German Singer”, fino a trasfigurare in urla soffocate: “But none of it was right/non of it was righy to me/The sunset in me screaming”.
Una sorda batteria e tastiere retrò chiudono il primo lato del vinile, addolcendo in parte l’ascolto con un’apparente normalità e tornano i perfetti dialoghi tra il canto e gli archi per quella che è “Never Tried To Run”
Apre il Side B il baccanale ritmico di “One” al quale si contrappone la successiva bella e eterea “Open Eyes”.
Con “Bear” si ripropone il contrasto tra l’elettronica, il noise e gli archi che declinano una decadenza post nucleare (“A porcupine star, a nuclear weapon/I am the cause/I am the weapon/Old habitats and old way/are speanking”) che è preludio per la umanamente sacrale e pagana “Let Your Hair Down”.
“Good And Bad” ripiega la tensione in industriali e fatiscenti strutture e evoca talune composizioni della miglior Moor Mother, per uno dei momenti più estremi di “The Obsession With Her Voice”.
Congeda un disco di indubbio valore e interesse la pacata e musicale “Temple”, che dimostra la versatilità della Angell capace di esprimersi anche entro confini più “ordinari”.
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