Peter Gabriel, dopo aver pubblicato nel tempo, con ossessiva cadenza, in doppia (e più) versione (Dark-Side Mix e Brigth-Side Mix) i singoli brani, ha di fatto “formalizzato” l’uscita del suo ultimo lavoro discografico “I/O” (Real World Records); un’operazione sicuramente peculiare che, contestualizzata alla nostra contemporaneità liquida, trova una esatta collocazione a dimostrazione di come Gabriel sappia essere sempre attento al mercato e alle sue potenzialità, sfruttandone forze e debolezze. Considerazione, questa, che esula dal valore della “musica” di cui parleremo in dettaglio successivamente.
Ma d’altro canto Gabriel, a suo modo, è sempre riuscito a cogliere l’attimo, l’attimo del cambiamento, volgendo a proprio favore anche ciò che apparentemente potesse apparire come un momento difficile, di rottura.
Se è stato “illuminato” cavaliere dei Genesis (“Dancing out with the moonlit knight” – cantava nel 1973), colto e al contempo tanto popolare quanto aristocratico, è con il suo Rael di “The Lamb Lies Down On Broadway” che Gabriel certifica, autobiograficamente, la sua straordinaria dote di rinnovamento, consegnando alla storia, a parere di chi scrive, il più bel disco dei Genesis e decretando, non il suo canto del cigno, bensì la sua rinascita; su di “The Lamb Lies Down On Broadway”, on ne, si parla anche di un interessamento di Alejandro Jodorowsky per la realizzazione di un film e che lo stesso Gabriel si fosse ispirato, tra l’altro, a quel capolavoro cinematografico che è “El Topo” dello stesso Jodorowsky (per tutti Wikipedia), secondo “per corrente” solo a “Iré como un caballo loco” del “Maestro” Fernado Arrabal.
Comprendendo con anticipo che stava tramontando il tempo del rock progressive, dei virtuosismi, dei sintetizzatori e dei flauti traversi, Gabriel si proietta nel futuro e, superato il periodo di “transizione” in crescendo dei celebri quattro dischi “senza titolo” (periodo che ha dato alla luce l’ottimo terzo disco del 1980, con la celebre “Biko”, oltre alle splendide “Games Without Frontier”, “I Don’t Remember”, “No Self Control” …), giunge con “So” (del 1986) alla sua definitiva consacrazione da “solista” (nel mentre sua anche la bella e sperimentale colonna sonora “Birdy” del 1985). “So” è un disco che rappresenta magnificamente il suo tempo, vivendolo pienamente ma con uno guardo (e non solo) al domani: perfetta sintesi di quanto possa essere la musica di altissima qualità anche (pop)ular e “commerciale”; ne sono testimonianza diretta “Red Rain”, “Sledgehammer” (menzione anche per il video) e “Don’t Give Up” (con Kate Bush), per un trittico d’apertura impressionante.
Ma Gabriel è anche quello di “Passion: Music for The Last Temptation of Christ” (del 1989), colonna sonora del film di Martin Scorsese, pubblicato per la sua etichetta Real Word Records, un lavoro acclamato dalla critica che ha però (come la detta etichetta) quale vulnus proprio il motivo del successo; personalmente non ho mai amato molto né “Passion”, né alcune pubblicazioni della Real Word Records a causa di quella eccessiva “pulizia” e contaminazione che è marchio di fabbrica di gran parte della “world music”. Resta il fatto che Gabriel, ancora una volta, con un’operazione “commerciale” di qualità, sia riuscito a intendere i gusti e le esigenze del pubblico con raro tempismo e grande lungimiranza.
Dopo “Passion”, il ritorno con “Us” (del 1992), per inaugurare gli anni novanta, rielaborando la formula riuscita di “So”, aggiornata con esperienze da Real Word, ma ancorata troppo al passato (ne è la prova per tutti la funzionale “Stam”); a seguire, dischi live, la delusione per l’atteso “Ovo” del 2000 (colonna sonora dell’omonimo spettacolo “The Millennium Show”), e tra più bassi che alti da menzionare, per intenzione più che per resa, solo il “particolare esperimento” “Scratch My Back” del 2010 in cui Gabriel interpreta, accompagnato da un’orchestra (in cui spicca il pianoforte), brani altrui di varia provenienza (replicherà con “New Blood” del 2011, in cui interpreterà con l’orchestra brani suoi); ne sono la prova la celebre “Heroes” di David Bowie (Brian Eno e Robert Fripp), “Flume” dei Bon Iver di Justin Vernon (splendida nella versione originale contenuta su “For Emma, Forever Ago”) e “Street Spirit (Fade Out)” dei Radiohead.
E così, nel 2023, in pieno mercato musicale liquido, ecco prima i dodici brani di “I/O” nella doppia versione mix, operazione impossibile da pensare anni addietro, e poi il disco nella sua interezza, per il quale Gabriel offre una pregevole “produzione” e si affida a vecchi collaudati amici tra cui Brian Eno, Tony Levin, David Rhodes e Manu Katché, nonché all’orchestra curata da John Metcalfe.
Il primo singolo “Panopticom”, già all’alba della sua pubblicazione, non aveva pienamente convinto, essendo intriso in taluni passaggi di un eccessivo “mellifluo” incedere; testimonianza di ciò il breve intro (poi ripreso nel corso del pezzo) e il ritornello che ha riportato alla mente una fusione tra gli Asia del debutto omonimo e gruppi new romantic degli anni ottanta.
Con il più convincente “The Court”, Gabriel recupera un cantato collaudato imperniato su di una struttura varia con tanto di apertura orchestrale.
“Playing for Time (song)” (derivazione di “Daddy Long Legs”, brano eseguito durante il “Back to Front Tour”), appare come “omaggio natalizio” per pianoforte tratto dal citato “Scratch My Back”, per poi perdersi in una discutibile orchestrazione arrangiata da Ed Shearmur.
“I/O” nasconde tra le righe un cantautorato pop di stampo statunitense … tanto radiofonico quanto scontato, malgrado la partecipazione del Soweto Gospel Choir.
In “Four Kinds of Horses”, Gabriel si riappropria (in parte) di se stesso per un brano che, asciugato dalla “ridondante” orchestra e reso più “industriale”, avrebbe avuto altra dignità.
Con “Road to Joy” e “This Is Home” tornano “So” e “Us” e, se non si considerano i trent’anni (e più) trascorsi, i pezzi godrebbero di una “freschezza” ad oggi passata; restano però entrambi godibili nell’ascolto e nei richiami “Motown”; anche “Love Can Heal”, complice il cello di Linnea Olsson e i cori femminili, riporta alla solennità contenuta in “So”, qui però in una veste senza tempo, per uno dei migliori brani di “I/O”.
L’intimità al pianoforte di “So Much” convince sicuramente più di quella di “Playing for Time (song)”, anche se conferma una mancata attitudine di Gabriel nel cimentarsi in tali “scritture”.
“Olive Tree”, sebbene con diverso registro, mostra gli stessi pregi e i medesimi difetti di “Panopticom”.
“And Still” è accomodante e nel complesso forse il brano più moderno e “equilibrato” del disco, malgrado la frattura centrale e i suoi 7:41 minuti di durata.
Chiude “I/O”, “Live and Let Live” … che si pone in perfetta linea con quanto ascoltato, confermando una qualità “medio-bassa” del tutto, con interventi dell’orchestra spesso inopportuni. Dopo tanti anni di attesa (di fatto, se si escludono i live, le colonne sonore e le reinterpretazioni, l’ultimo “disco” di Gabriel è “Up” del 2002) e dato il “calibro” del nome è sicuramente più la delusione che l’entusiasmo per un lavoro discografico somministrato a piccole dosi per una lenta assuefazione al formato liquido.
Da segnalare, la particolare cura per le “copertine” dei singoli, realizzate da vari artisti tra cui David Moreno, Tim Shaw, Megan Rooney, Cornelia Parker, Henry Hudson, Barthélémy Toguo …
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