Iniziamo con una piccola introduzione biografica. Chi è Gary Gritness?
Raccontati come artista e come persona. Il Gary producer è diverso dal normale Gary? Siete la stessa persona?
Quando pubblicai il mio primo disco su Clone, qualcuno mi denominò “Cyberfunk Assassin” e pensai che fosse abbastanza malato da andarmi bene. Gary Gritness è un alias che ho creato perché, come persona, Slikk Tim, musicista, ad un certo punto della mia vita mi resi conto che lavoravo costantemente per conto di altri.
Mi presi una pausa di un paio di mesi e decisi di fuggire in un mondo interiore della mia ispirazione artistica pieno di electro-funk e tastiere. Col senno di poi, ne venne fuori che quella era l’espressione più veritiera di me stesso. Avevo semplicemente lasciato che una parte della mia anima venisse fuori naturalmente. Per questo motivo non percepisco alcuna differenza tra il “normal guy” Tim e l’alter ego Gary.
Il tuo ultimo lavoro è stato “The Sugar Cane Chronicles”, un doppio Ep compost da due volumi. Ho gradito tantissimo le influenze funky rintracciabili nelle radici di ogni brano (in particolare “Working Girls”). Spiegami da dove hai tratto ispirazione per questo lavoro. Lo hai realizzato come se fosse un concept album o la cosa è venuta da sé?
Sì, infatti. Adoro creare musica con un filo logico e cronologico, come fossero delle piccole vignette di un fumetto. Realizzo sempre piccoli scenari come sequenze di un film per ogni brano nella mia testa e questo mi permette di trovare più facilmente il titolo e lo sviluppo generale della composizione.
Per essere chiaro, non è rimarcata eccessivamente l’idea del concept, perché qualcuno potrebbe non coglierla e perdere interesse, ma per chi è dotato di curiosità e un pizzico di attenzione in più potrà notare i richiami e i dettagli, e rendersi conto che ho sparso le mie briciole qua e là, ricostruendo la sequenza di questo piccolo film.
In realtà, separo le registrazioni firmate Gary G in due corsie: Adventures lane e Sugar Cane lane. La prima è come un film-noir di ambientazione cyberpunk, la seconda è una danza sensuale dal tocco romanzato. La prima è più aggressiva e usa toni più tecnologici e sci-fi, la seconda ha toni più da club unendo funky, fusion ed elettronica.
L’obiettivo è quello di creare un effetto duplice nel pubblico: quando suono Adventures lascio che la folla si perda in atmosfere di un altro mondo, ma quando voglio un bel groove che animi le danze lascio che sia Sugar Cane a provvedere, e fidati provvede davvero. In un club a Parigi, negli ultimi minuti ormai le coppie amoreggiavano sotto il palco.
Ascoltando I pad e I bassi usati nelle tue canzoni, posso sentire un evidente tocco anni ’80: “Fly Shit” mi ricorda vagamente i Kraftwerk più pop, “Stayin’ Strong Hand” ha molti effetti tratti dalla prima ondata techno. Dovendo scegliere quali sono i riferimenti che maggiormente ti guidano?
Prima di tutto, vorrei sottolineare che il “tocco anni ‘80” a cui fai riferimento non è una questione di retromania o simile. Se quel sound fosse stato inventato 5 anni fa o 50 lo avrei amato ugualmente e sarebbe di certo diventato parte del mio modo contemporaneo di fare musica. Non lo faccio per rimarcare il solito concetto del “A quei tempi era tutto più bello”. Alle volte, nel minuto in cui suoni qualche accordo jazzy su un sintetizzatore polifonico, la gente parte “Oh! Così anni ’80!”, ma per me è come se uno suonasse un piano a coda e il pubblico gridasse “Oh! Fa così XIX secolo!”.
Detto ciò, posso ammettere che con i dischi Sugar Cane uso molto il funk anni ’80, però con contrasti non convenzionali. Ad esempio, mescolo linee armoniche incalzanti con qualcosa di più oscuro. Tra gli artisti da cui attingo più accordi e sample ci sono certamente Miles Davis e Manabu Namiki, autore di soundtrack per videogame giapponesi. Per quanto riguarda i Kraftwerk, devo ammettere che ho sempre preferito il versante più puramente kraut dell’elettronica tedesca, come Klaus Schulze e i Tangerine Dream. “Fly Shit” è un ibrido tra Latin-Jazz e Larry Head, così come “Stayin’ Strong Hand”, che parte dall’EP “Dopplereffekt” del ’95.
Preferisci lavorare in analogico o usi maggiormente strumentazioni digitali?
Ho lavorato per anni in molti studi con strumentazioni analogiche, quindi ho molta familiarità con “le cose reali”. Quando immaginavo il mio studio sognavo sempre roba analogica, le versioni digitali dei synth suonavano come uno scherzo all’epoca. Poi, qualche anno fa le cose sono cambiate radicalmente. Molti producer hanno cominciato a vendere macchine analogiche anche costose per ristrutturare gli impianti e le tecnologie si sono iniziate a unire.
Come Gary Gritness cerco di ricreare le stesse regolazioni che otterrei con l’analogico. Utilizzo versioni digitalizzate di quei suoni, così che possa recuperarle e modificarle fintanto che sono inspirato da quei suoni. Ma la cosa divertente è che la cultura del suono computerizzato non mi appartiene proprio. L’utilizzo dei glitch, di Ableton, Maxmsp, pad che sembrano alberi di natale non è assolutamente il tipo di musica che voglio!
Il mio modo è super tradizionale: visualizzo gli accordi, le melodie, i beats sul drumset. Le macchine sono lì solo per essere suonate con le limitazioni che offrono, ma resto io a scrivere la musica che sento nella mia mente.
Dato che la musica elettronica è ormai un genere tanto da ascolto domestico quanto da dancefloor da decadi, tu sei il tipo che preferisce una fruizione più intima o preferisci stare sul palco? Anche nella produzione, preferisci lo studio o il club?
A dire il vero, questa distinzione è sintomatica della Dj Culture. Io dico che sono stronzate. Questa dicotomia tra cose che si possono ballare e cose che no è superata. E non mi riferisco agli estremi come un Carl Craig o un intricato pezzo degli Underground Resistence, ma semplicemente che posso ascoltare tanto “Work That MF” di Steve Pointdexter seguito da qualsiasi cosa di James Brown, sia nel mezzo di una serata sia mentre bevo un caffè a casa.
Anche perchè il rovescio della medaglia è ovvio: chi dice che qualcosa di lento e meditative debba essere necessariamente confinato all’ascolto domestico?
Ravel, il blues, le ballate jazz hanno qualcosa di magico dal vivo, perché negarlo?! Ci sono delle vibrazioni che gli artisti creano sul palco che non potrai mai duplicare. Lo stesso vale per un producer che esplora l’ambient, e in quel momento che è sul palco riesce a parlare all’anima del pubblico.
Anche se non sono propriamente un tipo da club, e la velocità della “night life” non fa per me, amo ballare e trasmettere quell’energia quando suono. Posso trasformarmi in un topo da studio e lavorare come un matto, ma non mi ci vedrei un’intera vita a far quello. Credo più nel motto di Funkadelic: “Let’s take it to the stage!”
Quando pensi al funk quali sono gli artisti che ti vengono in mente? Sei legato molto alla black music?
Per me Funk è uguale a James Brown, e questa è una premessa a tutto. È il mio primo pensiero ogni volta che penso a quel genere. Poi vengono George Clinton and Parliament, Funkadelic, poi anche dall’Ohio State come Lakeside, Dayton, Zapp, Dazz Band. Sono la mia personale chiesa. Anche qualcosa di meno canonico però, come lo street funk di Jamaica Queens, Lenny White, Bernard Wright. Ho suonato jazz, r’n’b, gospel e blues prima di entrare nel mondo della techno e non potevo resistere dal portare quegli elementi in quel che faccio oggi.
Tuttavia, devo osservare un evidente white-washing della musica nera da parte dell’industria discografica odierna, perché tendenzialmente al pubblico bianco piace darsi un tono dicendo di amare la musica nera, ma è estremamente riduttivo associare un intero genere musicale al colore della pelle degli artisti! Personalmente non amo usare nemmeno la parola black music, perché essendo alla base di rock’n’roll, house, r’nb, rap non ha nemmeno più senso distinguere cosa lo è da cosa non lo è. Molto di quello che abbiamo oggi è inventato da afroamericani, è storia ormai. Ricordo una biografia di Smokey Robinson in cui diceva: “Negli anni ’60, tutto ciò che era suonato da un nero era musica nera. Bo Didley suonava rock? Era musica nera. Ornette Coleman suonava avant-garde jazz? Era musica nera. Nat King Cole ti cantava una canzone di Natale? Anche quella musica nera. Era come se qualsiasi cosa facessimo tutto si riduceva al colore della nostra pelle”.
Cosa vedi per il tuo futuro? Prevedi un nuovo Ep oppure un Lp potrebbe essere il tuo prossimo passo?
Lasciami dare un’occhiata nella sfera di cristallo e… Ecco:
Mi vedo cantare in vocoder su un classico di Marvin & Tammie come parte di un Lp in tributo per Neon Finger… Vedo un 12” di elettronica micidiale dove i remixo per Orlando Voorn… Vedo un’edizione in vinile di prossima uscita con alcuni miei pezzi live “Gary G”s Custom Shop pt.1” (così che chi mi chiede dove posso comprare la tua roba abbia risposta finalmente)… Vedo un concept in uscita l’anno prossimo che amplierà il discorso della narrativa cinematografica nella mia musica… E chiaramente vedo l’onore di suonare all’UniBeat qui in Italia con Aux 88 e Clock DVA nello stesso festival!
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