Io non sono qui, recita il titolo dell’ultima opera di Todd Haynes (il regista di Velvet Goldmine e di Lontano dal paradiso, per intenderci): un titolo che a differenza di quanto dichiarato, non è soltanto il nome di una canzone inedita quanto piuttosto, un indizio, un avvertimento, per quanti s’illudessero di assistere al biopic (autorizzato) di Bob Dylan.
Bob Dylan non è mai presente nel film, né la sua vita.
Io non sono qui non è un biopic o almeno non lo è nell’accezione classica: la vita del “menestrello d’America” non viene ripercorsa con piglio storiografico, né documentale. Non assistiamo all’evolversi della sua vita personale o artistica. Non ci viene detto nulla del Dylan uomo e forse neanche dell’artista. Nel film di Haynes viene preferita una narrazione poetica che fa della metafora il suo strumento principe.
Una narrazione corale che ripercorre le stagioni non di una biografia ma della vita di un’intera nazione, di un popolo che pensò di scoprire la propria identità nelle ballate di un ragazzotto.
C’è l’America dei pionieri incarnata nelle vesti di un ragazzino, che chitarra in spalla, va alla conquista della sua terra cercandone e cantandone l’anima più profonda.
C’è il mito, incarnato nella figura di Arthur Rimbaud (fondamentale nella formazione personale e artistica di Dylan) che più che essere metafora dell’artista e del suo popolo è un modello, una guida: è il genio ribelle, giovane e inarrivabile. Un essere in continuo divenire e in costante contraddizione con la vita.
Una vita che non riesce ad essere fluida e che si fa magmatica, ipersensoriale, ipersemantica dove il successo distrugge per poi rinnovarsi in forme diverse.
Una vita che ritorna poi, in vecchiaia, alle radici della terra, alla sua essenza più profonda e archetipica.
La critica si è spaccata davanti a questo film, presentato all’ultima edizione del Festival di Venezia. Un film difficile, che non ha la pretesa di raccontare e che in diversi punti diventa pura sublimazione. Un racconto in cui non ha importanza la coerenza strutturale, ma il ritmo. In cui il senso lascia il trono ai sensi.
A dir poco osannata l’interpretazione di Cate Blanchett (vincitrice della Coppa Volpi), eterea come sempre. E in grado di dare a Dylan un aspetto in bilico tra il timido Edward Mani di Forbice e Robert Smith dei Cure.
Autore: Michela Aprea