“Enorme”, è il primo aggettivo che ti viene in mente, dopo qualche ora passata allo Sziget Festival, l’evento che per un’intera settimana (dal 9 al 15 agosto, quest’anno) riempie di decine di migliaia di persone ed altrettanti decibel, litri di birra e salsicce alla brace ogni minimo spazio della verde isola di Obuda, placidamente distesa nel bel mezzo del Danubio, a nord del centro dell’affascinante e imponente Budapest.
Da sempre, la caratteristica principale del festival è quella di essere un evento “trasversale”, dove quasi tutti i generi musicali sono rappresentati, e dove anche i meno interessati ai concerti possono divertirsi e rilassarsi: con spettacoli di teatro, danza, acrobati e giocolieri; facendosi fare un massaggio; giocando a biliardino, a scacchi o a ping pong; facendo quattro chiacchiere con un rabbino (tariffa fissa: 100 fiorini. Non è uno scherzo) o con qualche altro animatore di uno degli stand a sfondo “spirituale”; facendosi un giro sulle auto-scontro; mettendo a dura prova il proprio coraggio lanciandosi con il bungee jumping; improvvisando jam-session di percussioni usando i bidoni della spazzatura come tamburi e qualsiasi cosa capiti sotto mano come bacchette (questo sembra essere un “must” del popolo Szigetiano); o semplicemente sbronzandosi per poi lanciarsi alla ricerca di un/a potenziale partner da “invitare” nella propria tenda (sempre che si sia in grado di ritrovarla…).
In effetti, vagando in lungo e largo per l’isola, si ha spesso l’impressione che la musica passi in secondo (se non in terzo) piano, e che prevalga la dimensione di enorme sagra di paese: la varietà e il numero di stand gastronomici è incalcolabile, gli ungheresi sono degli irriducibili appassionati di karaoke (“che mi frega che stanno suonando i Radiohead, ora è il mio turno di cantare ‘La Isla Bonita’”), e spesso preferiscono dimenarsi sui tavoli di un baretto dove si ascoltano pop-hits nazionali di qualche anno fa, o vecchi successi dance internazionali, piuttosto di allungarsi di due metri per assistere a qualche bel concerto.
Eppure di musica ce n’è tanta, tantissima.
Stendendo un velo pietoso sulle decine e decine di band ungheresi che dalle nostre parti non avrebbero accesso neanche ai palchi di uno sfigato pub di provincia (passi la poca originalità, ma che senso ha invitare delle “tribute band” ad un festival?), sono molti i concerti da ricordare. Così come è purtroppo da ricordare l’incazzatura per la cancellazione (annunciata tramite striminziti fogli scritti a pennarello esposti solo ed esclusivamente presso l’info-point all’ingresso del festival) dei Coldcut e (soprattutto) dei Gomez.
Ma andiamo avanti. I Franz Ferdinand, ormai super-star anche nel modo di rapportarsi col pubblico (sembra ieri che se ne stavano un po’ rigidi nei loro completini fighetti, non andando oltre un semplice “thank you” dopo ogni pezzo), infuocano il main stage nel giorno d’apertura del festival. Il loro è, come sempre, un concerto divertente, coinvolgente, diretto. Apprezzabile anche un breve scorcio, a metà set, dedicato alle rare ballad del repertorio. Peccato che Alex Kapranos, il cantante, fosse giù di voce, e che – probabilmente – un loro live sarebbe meglio concentrarlo in massimo tre quarti d’ora, che sulla lunga distanza i nostri perdono un po’ di impatto e di energia, a mio avviso.
C’era da aspettarselo, un bagno di folla per Goran Bregovic (nella foto qui a destra), da questa parti. Quello che è indescrivibile, piuttosto, è l’energia sprigionata dal pubblico durante il suo concerto. Nei pezzi più vivaci, nella platea si scatena il caos (c’è chi si lancia nel bodysurf, chi cerca disperatamente di ritrovare le scarpe perse nella danza, e chi – giuro! – ne approfitta dell’ondeggiare della folla per raggiungere le prime file strisciando tra i piedi della gente!). Goran, ovviamente, si diverte, sornione, ad osservare. Il concerto è la solita, divertente carrellata di canzoni tratte da film, canzoni per matrimoni, e per funerali (“Siamo troppo cari, come band per funerali. Quindi – per favore – cercate di non morire!”, scherza Bregovic nel suo consueto completo bianco).
Tra i concerti più adrenalinici, ovviamente, quello di Iggy and The Stooges. Solito copione (compresa l’”invasione” di palco durante “No Fun”, con Iggy che litiga con la security che non lascia salire i ragazzi) solita scaletta, soliti commenti (“ma come fa, alla sua età?”), solite pose semi-nudiste dell’Iguana… insomma: la solita impareggiabile lezione di rock’n’roll.
Ma, credetemi, la potenza del concerto degli Stooges non è stata NIENTE a confronto di quella sprigionata dai Gogol Bordello.
La loro è stata la performance più adrenalinica, esaltante, divertente cui m’è capitato di assistere durante i giorni del festival.
La band “gipsy punk” ha fatto saltare, pogare, ballare il pubblico del tendone a tal punto che le assi di legno del pavimento hanno sobbalzato ininterrottamente per due ore. L’attacco del concerto è stata un’esperienza indimenticabile: erano anni che non mi capitava di vedere un gruppo riversare sul pubblico una tale carica.
La formula musicale è tanto semplice quanto irresistibile: punk rock grezzo e spesso velocissimo, speziato con forti dosi di musica balcanica (somministrate da violino e fisarmonica) e numeri da teatro (con due ballerine/cantanti/musiciste che di tanto in tanto facevano la loro comparsa sul palco): la patchanka dei Mano Negra (omaggiati con una cover di “Malavida” quasi hardcore), sfumature à la Negresses Vertes, la poesia etilica dei Pogues, lo spirito “combat” dei Clash (che avrebbero sicuramente apprezzato un pezzo come “Immigrant punk”) riletti in chiave zingaresca.
Padrone indiscusso delle scene, lo straordinario frontman di origine ucraina Eugene Hutz: baffi da cosacco, sguardo da figlio di puttana (possibile che Kusturica non abbia ancora deciso di dargli una parte?), fiato inesauribile, una capacità incredibile di suonare la chitarra classica senza sbagliare una nota anche dopo essere appena “riemerso” dall’ennesimo tuffo tra la folla.
Il finale del concerto ha qualcosa di epico: una cinquantina di persone del pubblico a ballare sul palco ed Eugene a cantare in bilico sopra di una grancassa sorretta a stento dal pubblico delle prime file, come un marinaio sulla sua barchetta nel bel pieno di una burrasca. Una scena a dir poco indimenticabile.
Se passano dalle vostre parti, non perdeteveli per nessun motivo al mondo.
Tutt’altre emozioni ed atmosfere per uno dei concerti più attesi del festival, quello dei Radiohead.
Confesso di essermi avvicinato al main stage con un fardello notevole di pregiudizi e con una buona dose di prevenzione. Dei dubbi iniziali, però, a fine concerto rimane poco o niente: la band di Thom Yorke presenta una scaletta eccezionale, con tanti brani da “Ok Computer”, splendidi ripescaggi da “The Bends” (“mio dio, sto invecchiando!” ho pensato quando mi accorgevo che pochissimi, tra i ragazzini che mi circondavano, si esaltavano con pezzi come “Fake plastic trees” e “Street Spirit”), e spazi ridotti concessi alle ultime produzioni (quella della svolta electro-sperimentale, diciamo). Sembra che i ragazzi stasera si siano resi conto (e qui qualche fan si potrebbe incazzare…) di essere una straordinaria band pop-rock, e che forse certe trovate (pesudo)avanguardistiche sarebbe il caso di lasciarle a chi di dovere.
Quello della band di Oxford è un live impeccabile, con dei picchi emotivi altissimi: una “Idioteque” splendidamente riarrangiata, “Exit music”, “No surprises” e “Karma Police” che scuotono l’immensa platea provocando non pochi brividi, una bellissima “I might be wrong”. Belli anche i video: su di uno schermo diviso in quattro parti si alternano dettagli dei quattro musicisti mentre suonano, come se ci fossero delle micro-telecamere sul palco a “spiare” la band. Grandissimo concerto.
Ottimi, ancora una volta, i dEUS: una band in stato di grazia, che dal vivo riesce a far apprezzare anche i brani di un disco, come l’ultimo “Pocket Revolution” , che aveva lasciato i più piuttosto tiepidi. Inutile dire che “ripescaggi” dal passato come “Suds and Soda” e “Little Arithmetics” (posta a fine concerto) sono state assolutamente da pelle d’oca.
Simpatici i Sons And Daughters, con il loro ammiccante (seppure un tantino ripetitivo) rock’n’roll infarcito di new wave e di evidenti richiami al country.
Mi concedo ad un trionfo di pailettes, lustrini, trucco pesante e vestiti seventies con i nuovi eroi del glam: gli Scissor Sisters, capaci di trasformare l’area antistante il palco principale in un enorme dancefloor. Sexy, patinati e a tratti un tantino melensi, si fanno ascoltare con piacere, col sorriso sulle labbra.
In preda a slanci campanilistici mi immergo nell’atmosfera vagamente surreale del concerto di Roy Paci & Aretuska: col povero Roy che cerca di comunicare in inglese, salvo capire che il 90% del pubblico è composto da italiani (in vena di discutibili atteggiamenti nazionalistici… passi il solito po-po-po-po mondiale, ma addirittura “Fratelli d’Italia”…?!). Atmosfera più distesa sotto al palco degli Spakka-Neapolis 55 di Marcello Colasurdo: tammurriate coinvolgenti, sia per i napoletani sotto al palco, sia per una platea internazionale danzante e divertita.
Sullo stesso palco (quello dedicato alla musica World), il giorno prima (l’11 agosto) avevo assistito all’ottima performance della Toumani Diabetè Symmetric Orchestra, ensemble di virtuosi musicisti del Mali, mentre il 14 Natacha Atlas e i suoi fidati, bravissimi, musicisti, con i loro ritmi a metà strada tra medio-oriente, Egitto e groove occidentali, mi hanno fatto dimenticare in fretta il supplizio cui m’ero sottoposto per pochi minuti: il concerto dei banalissimi, francamente inutili Placebo. Trascurabili anche Guru’s Jazzmatazz featuring Doo Wop e Solar, quest’ultimo presentato dall’MC ogni 5 minuti, tra un “make some noise!” e l’altro. Clichè hip-hop e r’n’b a profusione, senza mordente.
Alla rabbia fittizia e all’angosciante ripetitività dei ridicolissimi Prodigy (una band completamente bollita, decisamente fuori tempo massimo, eppure osannata da un numero sconvolgente di persone in delirio!) ho preferito la violenza senza fronzoli dei devastanti Morbid Angel sul palco “Hammerworld”, uno spazio (curiosamente rilegato ad una zona poco “battuta” dell’area-festival… un vero e proprio ghetto!) interamente dedicato al metal e al punk, dove nei sette giorni di Sziget si sono alternate band di notevole spessore (Cradle Of Filth, Exploited, Sick Of It All, Fear Factory etc.).
Uniche formazioni nazionali ascoltate con un minimo di attenzione: gli spassosi Mystery Gang Rockabilly Trio, che hanno movimentato il “Blues Stage” con il loro rock’n’roll primordiale, così anni ’50, spesso alle prese con movimentate scorribande surf, e i Neo-Folk (sul “Bahia Stage”), ensemble impegnato con brani dal sapore tradizionale, impreziositi da una cantante con una splendida voce.
D’alta classe, come prevedibile, il concerto (al Müpa Jazz Stage) di un trio di assi come Matthew Shipp, William Parker e Gerald Cleaver, che con le loro fughe free-jazz hanno tenuto col fiato sospeso un pubblico in adorazione.
Sul versante elettronico: gli Orb c’hanno regalato uno splendido trip di electro-house psichedelica alla loro maniera. Con suoni ormai chiaramente datati, ma non per questo meno coinvolgenti. Un set a metà tra il live e il djing, con momenti in cui il groove era assolutamente irresistibile.
Tra i djs che si sono alternati nella “Party Arena”, da segnalare lo straordinario Carl Craig, capace di passare con disinvoltura dalla techno-Detroit ai bpm rallentati di brani ostinatamente minimal, dai synth d’annata di Giorgio Moroder ai beat ossessivi con i quali fa sobbalzare il pubblico. Più banali il patinato Roger Sanchez (tecnica, mestiere, ma poca emotività) e il piatto Layo (che, almeno fino alle 4 del mattino, era orfano del suo partner Bushwacka). Divertente (e divertito: tanto da mettersi a ballare in piedi sulla consolle!), come prevedibile, l’eclettico Mylo, che alterna super-hit (Madonna), acidi brani electro e improvvisi flashback rock.
Dopo una settimana di festival le orecchie sono sature e le gambe a pezzi (a spostarsi da un palco all’altro si macinano chilometri!). Ma l’ultimo giorno si abbandona l’isola con un po’ di amarezza, come dei bambini strappati via da un immenso Paese dei Balocchi. Attraversare per l’ultima volta il ponte d’acciaio che ti riporta sulla terraferma fa un certo effetto. Goodbye, Sziget!
Autore: Daniele Lama daniele@freakout-online.com
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