Nel chiudere l’ultima recensione scritta di “Ancient Astronauts” (qui) dei Motorpsycho, usavo la chiosa di un ragionamento fatto spesse volte in discussioni con altri fan di vecchia data del gruppo, circa la deriva prog assunta negli ultimi anni dalla formazione norvegese che, forte dello status raggiunto di gruppo di culto, sembra non si preoccupi affatto di conquistare nuovi ascoltatori e sia sui dischi che nei loro torrenziali live, trova soddisfazione solo in queste lunghe jam strumentali che nulla aggiungono alla loro prestigiosa carriera.
“La loro nutrita schiera di fan fedelissimi che apprezza a prescindere ogni nuova uscita, gli garantisce di continuare su questo andazzo a patto di mantenere questi livelli alti di standard compositivi. E come se ci trovassimo su di un Onlyfans dedicato alla musica, un circolo chiuso tra musicista ed ascoltatore fedele, impermeabile a tutto ciò che li circonda”.
Un discorso che voleva essere in parte, come un invito rivolto a Bent Sæther e Hans Magnus “Snah” Ryan, oramai e da sempre titolari del loro prestigioso marchio, di tornare alla forma canzone, o quantomeno a qualcosa di più vicina ad essa, per evitare di fossilizzarsi in uno schema ripetitivo, che per quanto fosse interessante, avrebbe portato il duo norvegese nelle secche di una de-evoluzione fine a sé stessa.
Un desiderio, quello del sottoscritto, che in un certo senso viene esaudito con la pubblicazione di questo “YAY!” che ci restituisce la dimensione acustica dei Motorpsycho, presente in tanti dischi degli anni Novanta e che sembrava dimenticata.
Alla vigilia della pubblicazione di questo trentatreesimo album in studio il duo norvegese ha dovuto fare i conti con l’abbandono dell’ennesimo batterista ed il disimpegno dell’etichetta Rune Grammofon che insieme alla label tedesca Stickman, ha pubblicato quasi tutti i loro album. Da qui l’esigenza di creare una propria etichetta discografica (Det Nordenfjeldske Grammofonselskab) per continuare ad essere in toto responsabili del progetto creativo dall’inizio alla fine, rimettendo le mani in pasta come agli esordi della carriera.
Rispetto alle opere precedenti più recenti la differenza, prima che ancora musicale, è rappresentata dalla copertina estremamente colorata ispirata palesemente a quella di “Wowee Zowee” dei Pavement, ma anche a certi lavori grafici presenti sui dischi di The Fall e Mothers of Invention.
Benché agli antipodi dalle torrenziali canzoni elettriche di “Ancient Astronauts” le dieci canzoni scritte da Bent Sæther mostrano un grande lavoro sugli arrangiamenti e sulle melodie che mantengono un deciso taglio psichedelico che riporta agli anni 60/70 ed alla scena di Canterbury in particolare. Questo è il risultato dell’ottimo lavoro di produzione del gruppo composto da Reine Fiske e Lars Fredrik Swahn che rivestono l’aspetto cantautorale del brano di quella matrice psichedelica tipicamente svedese che ha contrassegnato il revival dei primi anni 2000 con band come Dungen e The Amazing che hanno ispirato anche gruppi di maggior successo come i Tame Impala.
Il nuovo album mostra una certa omogeneità di fondo nell’ascolto anche se mostrano delle diversità più o meno palesi. Si parte con le delicate atmosfere oniriche acustiche di “Cold & Bored” e “Sentinels” che introducono l’ascoltatore a riassaporare certe atmosfere che sembrano perdute nel tempo, con i cori che rimandano alla lezione beatlesiana che servono ad esaltare le melodie fragili e gli elementi percussivi che sono tra i pilastri portanti dell’album, come accade ad esempio in “W.C.A.” o nel finale leggero del brano conclusivo “The Rapture”.
Il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album, “Patterns” inserisce tappeti di synth, una batteria più corposa ed un crescendo elettrico che potrebbe renderla appetibile per gli airplay radiofonici. Proprio da questo brano si evince anche come la musica dei Motorpsycho sia in un certo senso perfettamente riconoscibile in ogni sua veste anche se ne accentua il carattere mutevole.
Dopo la malinconica “Real Again (Norway Shrugs & Stays Home)” e la delicata canzone d’amore “Loch Meaninglessness & The Mull Of Dull” arriva il brano cardine del disco ed anche quello più lungo rispetto alla media. “Hotel Daedalus” sublima quel concetto di ritorno alle canzoni di cui parlavo all’inizio, e che porta questo brano a non sfigurare affatto con capolavori del passato come “Vortex Surfer” tanto per citare uno dei vertici assoluti del Motorpsychodelic Tune.
Di certo dopo l’ascolto di questo “YAY!” non possiamo gridare al capolavoro, per quello è meglio scandagliare gli album pubblicati negli anni novanta, ma di certo non sbagliamo nell’affermare che i Motorpsycho continuano ad essere una band ispirata che non si culla di pubblicare dischi di “mestiere”.
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autore: Eliseno Sposato