C’eravamo salutati con William Shalespeare, all’alba dello schiarire della sua La Tempesta … per approdare, ritrovata la rotta, nuovamente al Teatro Grande di Pompei, oggi che di ben altri approdi si discute…
È, infatti, andato in scena, con il presagio del pelago … “questo è il segno … la tempesta” … il secondo appuntamento della rassegna Pompeii Theatrum Mundi (realizzata con il Parco Archeologico di Pompei in coproduzione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival), con la libera interpretazione dell’Edipo a Colono di Sofocle, per la scrittura di Ruggero Cappuccio e la regia di Rimas Tuminas.
Prima di addentrarci nella disamina di quanto visto e sentito, è doverosa una breve premessa.
Edipo (e le tragedie a lui legate per diretta appartenenza o per filiazione) è l’archetipo, la matrice prima del teatro poiché (a parere di chi scrive) personifica la summa di quanto nell’essere umano alberga; sia in termini individuali che sociali.
È uno studio antropologico che assume su di sé la vera e unica Hybris dell’uomo e della donna fatta di debolezze, paure, istinti, tabù, vita e morte, guerra … di leggi naturali e di diritto positivo (la dicotomia di quest’ultime, nella sua ancora attualissima applicazione, è magistralmente immortalata, sebbene richiamata anche nell’Edipo a Colono, nel giusnaturalismo dell’Antigone di Sofocle: “A dirmi di fare questo non fu Zeus; né Dice, sua compagna degli Inferi emanò mai simili leggi agli uomini; né ai tuoi decreti ho riconosciuto tanta forza che un mortale non potesse trasgredirli neppure dinanzi a leggi non scritte e innate degli dèi. Queste leggi non sono di oggi, né di ieri, vivono sempre, nessuno sa da dove e quando comparvero al mondo. E a violarle non poteva indurmi la paura di nessuno fra gli uomini, per poi renderne conto agli dèi. Sarei morta, lo sapevo anche senza il tuo bando”).
La cieca saggezza di Edipo è contemperata dall’incapacità di vedere (quale uomo) le debolezze che gli sono proprie o forse (più che debolezze) la natura che infondo è in ognuno di noi e che ci spinge (se ignari dei legami di parentela) a uccidere anche il nostro padre e a giacere con nostra madre: ciò a testimonianza di quanto le convenzioni sociali influiscano nel regolamentare gli istinti (va detto che il parricidio, al pari del matricidio o dell’infanticidio, così come l’incesto, sono “partiche” messe spesso in atto – a differenza di Edipo – anche consapevolmente).
Un “viaggio al termine della notte” (per parafrasare Louis-Ferdinand Céline e il suo realismo e nichilismo nel “Non posso trattenermi dal dubitare che esiste una qualunque genuina realizzazione del nostro più profondo carattere, tranne la guerra e la malattia, quelle due infinità dell’incubo”) che, con una non velata autobiografia, Sofocle destina alla (seppur amara) riabilitazione del suo Edipo e alla celebre riflessione nel “Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia, priva di vigore, di piacevoli conversari, d’amicizia, che in sé d’ogni tristizia ha la tristizia”.
Il valore escatologico, etico e morale della funzione dell’uomo e del suo ruolo nel creato, l’esistenza o meno del libero arbitrio nella sua contrapposizione con le iscrizioni genetiche, nostro patrimonio chiamato fato e il disancorare il concetto di dono da quello di vita aprono, quindi, la breccia sull’eterno dilemma di ciò che siamo, che vorremmo essere e che possiamo essere.
Lo stesso Edipo, sia nella propria “confessione” (recitata da un Claudio Di Palma/Edipo che ha richiamato alla mia memoria, nella sua interpretazione, il celebre monologo/confessione nel finale di “M – Eine Stadt sucht einen Mörder/M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang”), che nella propria narrazione, empio del suo stato di padre e fratello dei propri figli, rimanda all’iscrizione nel destino e nel capriccio degli dèi la propria colpa, quasi come se non vi fosse stata libertà e scelta per le proprie azioni:
“Nozze, omicidi,
miserie, dal tuo labbro a me scagliasti,
ch’io senza mio voler pativo, o misero:
ché tanto ai Numi piacque, irati forse
contro la stirpe mia, dagli evi antichi.
Ché, se tu guardi me, non troverai
traccia di fallo alcuna, ond’io dovessi
contro me, contro i miei tanto peccare.
Spiegami, dunque: se un divino oracolo
giunse a mio padre, che morir dovrebbe
per man del figlio suo, con che giustizia
la colpa attribuir vorresti a me,
che né dal padre ancor, né dalla madre
i germi accolti non avea dell’essere,
concepito non ero? E se poi, nato
com’io nacqui, infelice, a lotta venni
con mio padre, e l’uccisi, in tutto ignaro
di che scempio compiessi, e contro chi,
a un atto involontario, apporre biasimo
giustamente potresti? E di mia madre,
che tua sorella, o sciagurato, fu,
a narrare le nozze puoi costringermi
senza vergogna? Ed io le narrerò,
non tacerò, poiché l’empia tua bocca
è pur tanto trascorsa. Era mia madre,
era mia madre, ahimè, sciagura mia!
Ma non sapevo, io, non sapevo! Madre
m’era, e l’obbrobrio diede a me di figli!
Ma questa cosa io so: che coscïente
me tu diffami e tua sorella; e ignaro
io sposa l’ebbi, e a mal mio grado or parlo.
Ma non sarà che taccia di tristizia
per queste nozze io m’abbia, e per la strage
del padre mio, che sempre mi rimproveri
con vituperio amaro. Un punto solo
rispondi a me, di ciò ch’io ti domando:
se, d’improvviso qui giungendo, alcuno
volesse, o giusto, ucciderti, ricerca
faresti, se tuo padre è chi t’assale,
o ne trarresti subito vendetta?
La trarresti, se pur cara hai la vita,
senza indagar se tal vendetta è lecita.
Spinto dai Numi, a simile iattura
pervenni anch’io: smentir non mi potrebbe
seppur, vivesse, di mio padre l’anima.
Ma tu, che non sei giusto, e bello reputi,
checché tu dica, il lecito e l’illecito,
in cospetto a costor cosí m’oltraggi.
Il nome di Tesèo, bello è per te
piaggiare, e Atene, e il suo governo saggio;
ma questo, poi, fra tante lodi oblii,
che, se una terra v’ha che d’onor sappia
ricolmare gli Dei, questa v’eccelle.
Quindi, per me rapir, vegliardo e supplice,
le man’ su me gittasti, e le mie figlie
via trascinasti: ond’è che adesso invoco,
supplico queste Dee con le mie preci,
qui le astringo a venire, al mio soccorso,
a combatter per me, sí che tu vegga
da quali genti è custodita Atene”.
Per tornare alla rappresentazione andata in scena la Teatro Grande, Cappuccio e Tuminas, pur mantenendo fede al contenuto dell’opera, ne danno una loro personale visione atemporale.
L’intento autobiografico di Sofocle muta in una celebrazione del meridione che si fa verbo nel vernacolo siciliano e napoletano che tanto deve alle sue elleniche origini.
L’ossatura della tragedia si solidifica, invece, sulla versatile interpretazione di Claudio Di Palma (Edipo) capace di alternare momenti ironici a classica drammaturgia.
“L’Edipo a Colono di Sofocle – scrive Cappuccio – è forse il più alto paradigma del dolore. In esso risplendono le radici delle energie misteriose che il genere umano è stato chiamato a sfidare nell’arco di migliaia di anni. La trasmissione transgenerazionale del male brilla in una forma poetica in cui filosofia, ritualità e libero arbitrio si danno un appuntamento fatale. Nella riscrittura di Ruggero Cappuccio approdiamo in un luogo della memoria sospeso nel tempo, in cui i segni incancellabili della classicità si specchiano con il clima novecentesco della psicanalisi, delle guerre, delle lotte tra popoli per il raggiungimento del potere. La lingua che riaccende le luci dell’istinto e della ragione dei personaggi, è un italiano eroso al suo interno dal vitalismo ellenico della Sicilia e di Napoli. Gli endecasillabi e i settenari che compongono la partitura di questo Edipo, liberano una polifonia ancestrale di suoni tesi ad illuminare il dramma del re cieco attraverso una potenza sensuale oltre che cerebrale. Il processo di conoscenza del sé racconta come tra sofferenza e bellezza esista una relazione strettissima e dice che l’arte non è fatta per guarire le ferite. Il percorso di purificazione di Edipo svela che la natura dei rapporti che l’uomo intrattiene con il proprio io, non sono di ieri o di oggi, ma di sempre”.
Il dramma di un uomo, al contempo (come già detto) padre e fratello dei suoi figli, è reso ancora più netto, crudo e profondamente umano dal solco scavato tra il rapporto positivo con le figlie Antigone (Marina Sorrenti) e Ismene (Rossella Pugliese) e quello negativo con l’opportunista e interessato figlio Polinice (Giulio Cancelli). Con loro anche Fulvio Cauteruccio nel ruolo di Creonte e Davide Paciolla in quello di Teseo.
Non convincete l’impiego del Capo Coro (Franca Abategiovanni) e del suo Coro (Nicolò Battista, Martina Carpino, Cinzia Cordella, Simona Fredella, Gianluca Merolli, Enzo Mirone, Francesca Morgante, Erika Pagan, Alessandra Roca Piera Russo, Lorenzo Scalzo), cosmopolita e poliglotta voce del popolo e di individuali storie ed esibizioni su un palcoscenico nel palcoscenico per un tema di pubblico amore in bilico tra lirica, musica popolare (su tutte Oi Mamma Ca Mò Vene) e canzone tradizionale napoletana (su tutte Camela di Sergio Bruni). Va, infatti detto che se da una parte la funzione scenica del coro è servita a creare tensione e distensione nei suoi movimenti muscolari e canori (le scene e costumi di Adomas Jacovskis, le musiche di Faustas Latenas, e l’assistenza alla regia di Gabriele Tuminaite), non sempre il cambio di scena si è dimostrato fluido e naturale, inciampando in alcuni casi su troppo drastiche fratture da collage di un patchwork teatrale.
Commento particolareggiato meritano, infine, i letti e le scarpe, personaggi muti aggiunti, forti nel narrare il legame con il passato di Edipo e la necessità di proseguire il cammino della vita.
In chiusura, va annotata la dedica al regista teatrale lituano Eimuntas Nekrošius.
Indipendentemente dalla messa in scena, Edipo si conferma eroe e antieroe parlante un eterno linguaggio universale: Edipo è il verbo incarnato nell’uomo.
di Marco Sica