Non sono mai stato negli States, e mi piacerebbe tanto poter assistere da vicino alla parabola di uno dei tantissimi acts che, più o meno dal nulla, concerto dopo concerto, riescono ad approdare ad un’etichetta – non una qualsiasi, però, ma già una Touch & Go, come in tale fattispecie. E lasciamo perdere cosa accade dopo: se spariscono, se restano lì a incidere e pascere, se vi transitano come anticamera di un marchio più prestigioso. Ci sono musicisti più dotati lì? E’ molto probabile. Più etichette e responabili più open-minded? Idem. Mercato più ricco? Anche, però tenete pure presente che oltreoceano bisogna fare i conti con “branche” major come country e r’n’b, che fanno regolarmente il pieno (Tortoise o El Guapo, peraltro, non sono mica sulla bocca di tutti). Più suggestionabili noi europei da toponimi come Washington-Chicago-Olympia? Ma sì, mettiamoci pure questa variabile.
Tant’è, quindi, e un nome buffo come Pit er Pat, se non è la next big thing (e non lo è, ve lo posso dire da subito), ce la possiamo ritrovare da un giorno all’altro nello stesso roster di nomi ben più – sempre relativamente – affermati. Oddio, un certo Rob Doran, qui bassista, un passato come Alkaline Trio ce l’ha avuto. Gli altri, e lo stesso Rob, erano invece partiti come semplice backing band di un non identificato guy per i suoi concerti. Se non che, al primo di questi, il vocalist deve aver trovato qualcosa che non andava nella sua ugola (leggi “defezione”). La band – denominata Blackbirds, fino all’insorgere di grane legali con Joan Jett e omonimo gruppo – gli ha detto bye bye, e ha proseguito per conto proprio, trovando in Fay Davis, tastierista, anche una bella (femminile) voce. Della partita è anche il batterista Butchy Fuego. Niente chitarra, e il gioco è fatto.
Si potrebbe fotografare questi tre di Chicago come “pargoli” grezzi e “voce-muniti” dei Tortoise. I limiti alla strumentazione rendono infatti più scarne e spigolose le tessiture lounge-rock dei Pit er Pat. A cui va il merito, quanto meno, di non essere l’ennesima new-new-wave band allo sbaraglio, né di spacciare per cool delle insopportabili litanie pop (guerra a voi, Russian Futurists, malgrado il fichissimo moniker) per il fatto di avvalersi di tastiere. Fay e soci imboccano la strada di una geometria in qualche modo funzionale ma – e in fondo è anche presto per disporre delle cartucce migliori – ancora poco efficace. Se son rose fioriranno, si dice così?
Autore: Bob Villani