È strano che quanto più il liberismo diventa il pensiero unico, assoluto ed inevitabile e a cui non ci si può sottrarre, succede che agli artisti più sensibili alle infinite ingiustizie di questo sistema dittatoriale si sentano in obbligo di riprendere vecchi canti di lotta ed eventualmente di scriverne di nuovi. Se Marx vivesse in questi giorni dovrebbe parlare di un spettro “musicale” che si aggira non solo in Europa ma in tutto il mondo occidentale. Negli Usa Springsteen ha omaggiato quel vecchio comunista di Pete Seeger, Neil Young si è sentito obbligato a scrivere lui qualcosa contro Bush, dato che i giovani non l’hanno fatto, e Ry Cooder non è stato da meno con la rivendicazione che se gli Usa oggi sono una potenza è grazie al lungo lavoro e alle tante battaglie svolte della classe operaia. In Italia, invece, l’anno scorso abbiamo avuto “Il seme e la speranza” dei Gang e adesso l’ultimo lavoro dei Tetes De Bois. Il lavoro di questi cinque artisti/gruppi stanno così a dimostrare, per fortuna, che il legame tra il rock e la resistenza al capitale e la rivendicazione dei diritti è ancora ben saldo. I Tetes de Bois sono pienamente in questo spirito, non soltanto per la pubblicazione di questo nuovo album, fatto da un loro brano e da tredici cover, ma perché hanno presentato questo progetto non nei palasport, non nei locali, né tanto meno nei teatri, ma fuori delle fabbriche al cambio del turno, nei campi dei pomodori, nelle miniere e nei pressi dei call center, a bordo di un vecchio camioncino Fiat del ’56. L’iniziativa ha proprio chiuso il cerchio nel legame tra musica rock ed impegno civile. In quest’avventura, tra l’altro i Tetes de Bois hanno incontrato molti amici tra cui Ascanio Celestini, Nada, Sabina Guzzanti, Marco Paolini, Nada, Paola Turci e tanti altri. Andiamo al cd ed è opportuno partire proprio dalla title-track, l’unica traccia firmata da Satta e soci, che è un nuovo manifesto rock politico (altro che il populismo e le minchiate di Celentano). Per il resto troviamo brani di Matteo Salvatore, “Lu furastiero”, di estrema attualità, dato l’afflusso di migranti che abbiamo in Italia, resa con un piacevolissimo arpeggio di chitarra; “Il mio corpo”, testo mai inciso da Gaber, come sempre sufficientemente cinica e arrangiata con un jazz elettronico che sa di Miles Davis del periodo “Doo Bop”, una poesia di Rocco Scotellaro “Rocco e i suoi fratelli”, arrangiata con una ballata dal sapore folk-rock, nella quale merita di essere citato il ritornello “Noi siamo i deboli degli anni lontani/ noi siamo i figli dei padri ridotti in catene” e poi il sacrosanto rigurgito anticlericale de “Sa mondana commedia” di Slavatore Poddighe. Insomma “Avanti pop” da’ ulteriori stimoli a resistere.
Autore: Vittorio Lannutti