I detrattorti diranno che a 65 anni potrebbe anche pensare alla pensione e a portare a spasso il cane. Diranno che anche in questo ultimo disco non fa altro che cantare la stessa canzone da 40 anni. Diranno che vuole dimostrare quello che non ha affatto bisogno di dimostrare a nessuno.
Dicano quel che vogliono ma hanno torto.
Se non va in pensione è soltanto perché si diverte da matti, e meno male perché fa divertire anche milioni di fan. D’altra parte l’aveva pur detto anni fa: posso pensare di non incidere più dischi ma non posso pensare di smettere di suonare dal vivo. Ma poi continua a quanto pare a voler fare l’uno e l’altro.
Bruce Springsteen, 40 anni di carriera e 65 di vita, è il rocker attivo più longevo di sempre, e fa ancora ottima musica. La sua musica, certo, ma è una musica che negli anni ha spaziato dal jazz-blues degli esordi fino al rock classico negli anni ’80 fino alle sperimentazioni di The Rising, fino al folk, fino alle ballate acustiche alla Woody Guthrie, fino all’ irish-country di Wreckin’ball. Altro che stesso disco!
In quest’ultimo, High Hopes, Bruce in realtà vuole solo divertirsi, circondato dalla sua solita E-Street Band, con Danny Frederici e Clarence Clemmons pure, grazie alla magia dei mix e delle pre-incisioni. E con Tom Morello alla chitarra, in otto brani su dodici, a dare un’impronta acid-blues che sarà poi quella per cui quest’album verrà ricordato non come un album “minore”.
Di sicuro, la tracklist è quanto di più eterogeneo il Boss abbia mai tirato fuori per un disco: vi figurano quattro cover, due pezzi già editi, strafamosi e completamente rivisitati, e altri sei pezzi che sono scarti, B-sides o track di Ep.
Come la title track High Hopes, che è anche il primo singolo, cover degli Havalinas e già uscita in un Ep del 1996, qui rivista anche grazie a Morello, un latin-rock dinamico e fresco, dove c’è molta orchestralità e nessuno strumento particoare prevale, ma tutti servono la voce carica ed energica del Boss. Segue Harry’s Place, outtake proveniente dalla produzione di The Rising (e si sente!), in cui Morello riesce a duettare col defunto Clammons, e che si configura come uno dei pezzi migliori. Poi arriva una delle perle, American Skin (41 shots), che i fan e non solo già conoscono, perché uscita in un live ufficiale del 1999 (il tour della reunion della E-street Band dopo 15 anni) ed eseguita infinite volte dal vivo, ma mai presente come versione in studio su un disco. Adesso la troviamo qui, senz’altro emozionante e arricchita dalla chitarra di Tom, ma non stravolta nella sua già impagabile bellezza artistica, arricchita dal testo dedicato ad Amadou Diallo, afro-americano ucciso da 41 pallottole dei poliziotti per un errore (keggete le parole, e troverete il migior Springsteen testuale in questa track).
Arriva la seconda cover, da un brano della punk band australiana The Saints: Just like Fire Would viene trasformata in una classica pop-song springsteeniana, allegra, veloce, ben eseguita e divertente, anche se non sarà mai un capolavoro.
Ci attende Down in the Hole, anche questa outtake di The Rising, e anche questa, più dell’altra lo fa sentire: qualche critico ha richiamato I’m on Fire ma è un errore, benché suggerito dalla simile linea di batteria: in realtà Down in the Hole è pienissima delle atmosfere dolorose e sanguinanti di The Rising, (vedi NothingMan o Empty Sky), e trasuda la soffernza post Twin Towers da tutti i pori.
Heaven’s wall ilnvece viene dallo stock di canzoni di Wreckin’ Ball, e infatti ha una impostazione gospel con intro stile afro iniziale.
Frankie Fell in Love è una bellissima sorpresa che viene dagli scarti di Working on A Dream, sebbene si presenti come migliore di molti pezzi di quell’album (quello sì un album minore, a giudicare dagli altri sfornati dal 2001 ad oggi). Qui il Boss immagina un dialogo tra Shakespeare e Einstein davanti a una birra, con lo scienziato che scrive numeri su un tovagliolo mentre il poeta suggerisce che tutto ha inizio con un bacio. Certamente uno dei brani più forti, in pieno stile esplosivo E-street Band.
This is your sword è forse l’unica, insieme a Hunter Of Invisible Game, a configurarsi come una possibile skip-song, una canzone da saltare,tutto sommato: entrambe vengono dagli outtake di Wreckin’ Ball.
Si arriva al punto culminante dell’intero disco: The Ghost of Tom Joad, che già non aveva bisogno né di pubblicità né di presentazioni (in Italia la ricorderanno in una splendida esecuzione a San Remo, quando fu anche giustamente sottotilotata per far capire che razza di bomba era) si presenta qui completamente rivisitata, un blues elettrico in cui Tom Morello non solo canta alcune strofe, ma dà la sua impronta indimenticabile con una lead-guitar sanguinante, struggente, acutissima, che è più di un’eco al grido di protesta già rappresentato dal bellissimo testo scritto nel ’98, quando infervoravano le proteste No Global, e che purtroppo rimane attualissimo adesso con la crisi globale. “Benvenuti nel nuovo ordine mondiale!”: il grido di Bruce si fonde con il grido di chi fu leader dei Rage Against the Machine, che capeggiarono allora in America la protesta no global in musica. Un’autentica magia emozionante dunque, impareggiabile, che da sola vale tutto il disco, peraltro fin qui già molto bello.
C’è ancora spazio per due chicche: The Wall, dedicata a Walter Chicon, morto in Vietnam, che è la classica ballata springsteeniana con voce in basso, chitarra in arpeggio e sottofondo di piano. E infine Dream Baby Dream, cover dei Suicide, in origine elettro-punk e qui diventata dolcissima, con solo organo, e un loop di batteria in sottofondo, canzone alla quale Bruce affida il suo (temporaneo) commiato ai fan con uno dei suoi più tipici messaggi: continuare a sognare, a bruciare, a vivere.
Temporaneo commiato, dicevamo, perché ovviamente Bruce non può esimersi dal fare un altro tour, anche se ormai si dovrà dire che è lo stesso tour ininterrotto dal 2008 che va avanti, visto che il Boss si è fermato davvero poco da allora. Non sappiamo ancora se ci sarà sempre Morello, ma per chi non ha mai visto il Boss questo tour si presenta come un’ennesima occasione ghiottissima.
Intanto godiamoci questo disco, e che nessuno lo chiami “disco di scarti”: è un disco pieno, completo, in cui il Boss dichiara alla faccia dei suoi critici che non ha per niente intenzione di riposarsi. Perché lui, non dimentichiamo, è nato per correre. E per suonare fino all’ultima goccia di sudore.
autore: Francesco Postiglione