ll monicker è bellissimo, ne prenderete atto. Sotto vi si celano Greg Saunier, batterista della band indie-sperimentale Deerhoof e Sean Lennon, più figlio – artisticamente parlando – di Yoko Ono che di John Lennon.
La precisazione è dovuta visto che il lavoro in questione si pone come un interessante – seppur non seminale e neanche troppo innovativo – album in cui una sperimentazione per niente feroce si sposa molto bene a quei collages strumentali che fanno tanto New York.
Spiccatamente cinematografico (le video proiezioni di Martha Colburn rientrano pienamente nel progetto e Sean ha sempre avuto un rapporto con il cinema molto stretto), l’album appartiene formalmente ai filoni jazz e psichedelia, seppur rivisti all’ombra di certi virtuosismi jazz-rock più ’80 che ’70, anche se da un altro lato si avvicina in modo ironico e dissacratorio a certi gruppi contemporanei che propongono musica strumentale inutilmente complicata e sempre ‘post’ qualcosa.
In tale ottica allora il disco diventa godibilissimo e non si colgono appieno le motivazioni di chi ne ha voluto parlar male. Probabilmente costoro hanno voluto vederci una pretenziosità che all’ascolto in realtà non traspare. E’ proprio il contrario invece il motivo per cui ci piace, cioè quel basso profilo mantenuto contro le velleità dei modernisti a tutti i costi.
Un piano che più classico non si può si affaccia all’inizio dell’album in Impossible Shapes inanellando scale interrotte prima che una chitarra psichedelica memore delle polveri prog sollevate dai Comets On Fire di Blue Cathedral rubi la scena. Mechanichal Mammoth, a dispetto del titolo, si muove come un grande e simpatico elefante rosa all’interno di un cartoon a dimostrazione che ‘meccanico’ non deve per forza significare spigoloso e geometrico; Silk Screen Eyes è una caterva di percussioni mentre Whispers The Blue Tongue con i suoi synth acidi ricorda tanto quegli esperimenti di avant-jazz che si trovano nelle produzioni di Hal Willner. Notevoli anche il noise giocoso di Goddess Curlers, le atmosfere spiritate di Hostile Takeover e l’hard esotico di Colony Collapse Disorder, tutti elementi che si ritrovano in formula diversa lungo l’album che scorre piacevole e con dei momenti davvero buffi che ne segnano lo spirito.
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autore: A. Giulio Magliulo