C’era una volta il rock. Quello dei nostri padri o dei fratelli maggiori -nel mio caso, fratelli di amici- che consumavano la puntina del giradischi ascoltando Led Zeppelin, Deep Purple, Mountain, Journey e Black Sabbath. E noi con loro, volenti o nolenti, non avendo a quell’età molta voce in capitolo. Per questo l’affrancamento musical-adolescenziale avveniva in due maniere: odiando e allontanandosi dal genere (c’era chi ripiegava su Baglioni e Lucio Dalla) o assimilando la materia e andando ben oltre. Ho scelto la seconda via -con gran dispiacere di mia madre all’epoca e di mia moglie oggi- finendo a riempire i mobili di casa di vinili e compact di gruppi dai nomi assolutamente impronunciabili e dall’espressione alquanto poco amorevole. Ma un salto indietro negli anni -alla riscoperta delle radici- a volte non mi dispiace, specie quando l’uscita in questione non è una smaccata operazione di revival acchiappanostalgici.
Il rock rivive -ammazzo se rivive- attraverso questa band svedese giunta al quarto lavoro, il secondo con l’etichetta tedesca che ha segnato la sterzata definitiva verso sonorità chiaramente seventies. Anche in occasione del precedente “Voodoo Caravan” (2002) ne avevo tracciato un profilo discreto, spiegando che ci vuole l’orecchio allenato a questo tipo di cose, ma che il materiale proposto era certamente buono. Giudizio confermato, anzi migliorato.
Christian Carlsson e Magnus Ekvall -rispettivamente chitarrista e cantante- sono le menti di un progetto che acquista credibilità e vigore (a conferma la partecipazione all’ultimo Wacken Open Air) senza dimenticare che ispirarsi al passato non significa rinnegare il presente. La produzione affidata a Daniel Bergstrand -collaborazioni con Meshuggah e In Flames- lo dimostra. E se “Voodoo…” era nobilitato dalla partecipazione di mr. Mike Amott (chinare il capo, thanks) ora i due giovani da Malmoe si sono tirati dentro Roger Nilsson -al quattro corde anche con Spiritual Beggars- che fa notevolmente salire il tasso tecnico del gruppo. Ne beneficiano canzoni come “Spinning Around” e “American Powder”. Ma tutte son degne. E’ vero: rock and roll can never die.
Autore: Antonio Mercurio