“Chiedimi perchè ti meriti l’inferno” recita uno dei cartelli innalzati dal manipolo di religiosi radicali (mormoni?) fuori uno degli ingressi al festival. Gli altri cartelli si accaniscono contro l’”abominio” dell’omosessualità, ci ricordano che il rock ‘n’ roll compromette le nostre anime, e che finanche gli ormoni sono da tenere a bada, pena la dannazione eterna. Un giovanotto pensa bene di scriversi con un pennarello sulla pancia “666”, cercando di far incazzare il gruppetto di predicatori da strada, tenuti sotto controllo dalla polizia.
Benvenuti al Lollapalooza, il festival concepito da Perry Farrell dei Jane’s Addiction come evento itinerante nel lontano 1991, che dopo alterne vicende (e non poca sfortuna), dal 2005 ha “trovato casa” nell’enorme Grant Park di Chicago, Illinois, a ridosso del lago Michigan. Proprio nel bel mezzo della città, tra grattacieli che ti fanno girare la testa anche a guardarli dal basso verso l’alto.
Le contraddizioni di questo grande Paese si vivono, in piccolo, anche in occasione di un festival musicale: oltre al siparietto dei ferventi religiosi vs i ragazzi che entrano nell’area festival insultandoli e prendendoli in giro, non si può non notare lo stridore tra l’anima “ecologista”, vagamente radical-chic, che sottende il festival (stand con frutta e prodotti biologici venduti da agricoltori locali, sensibilizzazione nei confronti del riciclaggio di bottiglie e lattine etc) e il fatto che il festival sia sponsorizzato da grosse multinazionali, che non credo siano particolarmente sensibili al tema.
Ma c’è da sottolineare anche come il pubblico, incentivato a raggiungere l’evento con i mezzi pubblici, abbia raccolto a pieno l’invito, col risultato – quasi sconvolgente – che nelle strade adiacenti al parco non si ci sia il ben che minimo ingorgo, nonostante si stia parlando di un evento che coinvolge centinaia di migliaia di persone!
Altro particolare che mi fa piacere ricordare: nei palchi principali è previsto un “supporto” per i non udenti. In pratica: una signora, appena sotto il palco, ma visibile a tutti, “mima” il concerto, sottolineando con movimenti del corpo i vari ritmi e suoni degli strumenti, e traduce in tempo reale i testi delle canzoni nel linguaggio dei gesti. Ecco, questa cosa m’ha davvero lasciato a bocca aperta.
Di simile all’Italia, invece, c’è solo la presenza – questa davvero non me l’aspettavo – di bagarini e venditori di merchandising (del festival, non dei singoli artisti) falso.
Altra cosa che è difficile non notare, l’eterogeneità del pubblico, anche dal punto di vista anagrafico: certo, la stragrande maggioranza è costituita da ragazzi, anche giovanissimi, ma non è raro imbattersi in famiglie al completo, a volte costituite da tre generazioni di appassionati: nonni, genitori, nipoti…roba che in Italia ci capita di vedere solo alle sagre di paese. La cosa ovviamente lascia sorpreso solo me, che per un momento dimentico di trovarmi nel paese dove il rock’n’roll è nato.
Per la sua natura di festival “urbano”, gli orari non sono propriamente da “nottambuli”: alle dieci in punto la musica si spegne e…tutti a casa! Ovviamente questo significa che i concerti iniziano la mattina, ma significa anche che la sfida contro il caldo e l’umidità (a tratti veramente insostenibile) mettono a dura prova anche i fan più resistenti.
Capita quindi che il primo giorno ai Devo tocchi suonare alle quattro di pomeriggio, sotto un sole che davvero non lascia scampo, e che sicuramente non aiuta ad apprezzare al meglio il concerto. La scaletta alterna brani del nuovo disco, “Something for everybody”, come “Don’t shoot (I’m a man”)” e “Fresh” (i cui suoni, onestamente, non mi fanno impazzire, sospesi a metà strada tra la ricerca di un suono “contemporaneo” e l’inevitabile riferimento dal devo-sound che fu) ai super-classiconi come “Peek-A-Boo!”, “Girl U Want”, “Mongoloid”, “Jocko Homo”, che sono quelli che in fin dei conti il pubblico aspetta con ansia di sentire. Fa quasi tenerezza la presentazione di “Whip It” da parte di Mothersbaugh: “Siamo nel due-mila-e-dieci, e noi siamo ancora qui! vi rendete conto?”. In fin dei conti, un concerto sicuramente non memorabile, ma certe canzoni non può far che piacere ascoltarle dal vivo.
Neanche il live degli Hot Chip è di quelli da strapparsi i capelli da testa: la band punta subito al sodo, cercando di conquistare il pubblico con la sua anima più dance. Sezione ritmica in primo piano, bell’inizio con “And I Was A Boy From School”, ma dopo due-tre brani lo show si rivela piuttosto piatto e monocorde.
Molto più intrigante quello che succede sul palco “Sony bloggie”, dove sono di scena i Fuck Buttons (che “ovviamente” sul programma del festival sono riportati come F**k Buttons, bah!), protagonisti di un set riuscitissimo, in cui ritmiche tribali e pulsazioni techno fanno capolino nel vortice di rumorismo elettronico intransigente, e il marasma di vibrazioni e suoni dissonanti a poco a poco prende forma, per trasformarsi in lunghissime cavalcate trance. Ottimi. Sul palco BMI, il più piccolo di tutti, intanto, si mormora ci sia stato un fuori-programma che a me personalmente sa tanto di strategia di marketing virale: durante l’esibizione degli insignificanti Semi Precious Weapons, band “raccomandata” da Lady Gaga, pare si sia materializzata sul palco proprio la pop star più chiacchierata del momento, che ha pensato bene di movimentare la performance con un po’ di sano stage-diving. La notizia è confermata il giorno dopo, con decine di video su youtube che riprendono l’episodio, e migliaia di persone che vengono a conoscenza di una band sconosciuta ai più.
Sullo stesso palco, alle cui spalle si intravede il lago (la cui presenza è comunque ricordata costantemente dalle tante libellule che planano sulle nostre teste), intravedo anche gli insulsi Neon Trees: lustrini e pailettes per l’ennesimo banale e malsano tentativo di risuscitare i peggiori anni ottanta. E se di banalità si parla non si può non citare il set di Erol Alkan, che si esibisce sul palco dedicato ai dj, il Perry’s (ovviamente dal nome del ‘patron’ del festival), che ha una struttura davvero molto bella. Erol riuscirà pure, come da suo motto, a far ballare i kids, ma quanto è scontato! Dopo mezz’ora di “metti la cassa / togli la cassa” decido di aver visto abbastanza.
Ci si diverte parecchio, invece, con lo show di Jamie Lidell, per cui – purtroppo – non c’è il pubblico delle grandi occasioni (siamo sotto le mille presenze, davvero pochissimo rispetto agli standard del festival). Il nostro coniuga con maestria le sue due anime, quella elettronica – che vive attraverso i momenti in cui, da solo sul palco, fa magie a suon di beat box, campionamenti e sequenze manipolate dal vivo – e la sua (relativamente) nuova pelle soul-funk, che esplode grazie ad una band super compatta, che macina groove su groove, facendo scorrere in mente almeno quarant’anni di suono “black”, dal motown-sound a Prince, col pensiero sempre rivolto a sua maestà Stevie Wonder. Jamie è un vero animale da palco, coinvolge i suoi fan con cui c’è una splendida intesa, fa ballare tutti e raccoglie ovazioni stra-meritate.
Sul palco ”Adidas Mega”, che fronteggia il main stage (chiamato “Parkways”), i Chromeo ce la mettono tutta a far divertire un pubblico in trepidante attesa (sic!) della star della serata, Lady Gaga. Il loro electro-pop tamarro mi lascia piuttosto indifferente.
Alle otto in punto una quantità impressionanti di persone (ad occhio almeno centomila, di più e non di meno) aspettano la comparsa sul palco della piccola-grande star. La sua presenza al festival ha un sapore particolare, una sorta di “consacrazione” ufficiale: proprio qui (ma ovviamente non sul palco principale), nel 2007, era iniziata la sua ascesa. All’epoca era una giovane promessa, ora è la regina indiscussa del pop. Come prevendibile, il termine “concerto” è riduttivo: il palco è occupato da una scenografia imponente (un’enorme scala di ferro, un’auto nel cui cofano si nasconde un pianoforte…), e tutto lo spettacolo è concepito piuttosto come un musical (ovviamente con un corpo di ballo imponente). Le canzoni non mi fanno né caldo né freddo, ma il pubblico è impazzisce letteralmente, ed è bello trovarsi in mezzo a tanta gente felice (anche se non ne capisci fino in fondo il motivo). La prima serata volge al termine: una vocina nella testa mi invita ad andare a sentire almeno un pezzetto dello show degli Strokes, che suonano in contemporanea a Gaga, ma le gambe decidono autonomamente di avviarsi verso la metropolitana.
Il secondo giorno il gruppuscolo di moralizzatori è sempre lì, ma resto piacevolmente sorpreso dal fatto che Chicago si sia ricordata di essere la “windy city”, e così una piacevole brezza rende ancora più godibile il concerto dei Grizzly Bear, classica band da ascoltare sdraiati sul prato. La loro folk-psichedelia scorre via liscia e innocua. Ma sono piuttosto bravi.
Ai Metric sinceramente preferisco un hot dog gigante. Nonostante il gran darsi da fare della cantante Emily Haines sul palco, il loro rockettino davvero non mi dice niente.
E’ invece graffiante ed adrenalinico lo show degli storici Social Distortion: sudore e passione in ogni singola nota suonata, il leader Mike Ness, tatuato fino a sotto gli occhi, sfoggia una camicia bianca su canottiera di uguale colore, sul palco vari oggetti sparsi a ricordare lo spirito “stradaiolo” della band: un semaforo, un crocifisso, un guantone da boxe. La loro miscela di punk rock, blues, rock and roll è meravigliosamente fuori moda, ed incredibilmente efficace, nonostante il passare degli anni. La scaletta non da’ tregua, da super classici come “Mommy’s Little Monster” (la title track del disco d’esordio, datato 1983), alle cover di Rolling Stones (“Under my thumb”, che i S.D. inclusero nel controverso White Light, White Heat, White Trash) e di Johnny Cash (“Ring of Fire”, posta alla fine della scaletta), è un susseguirsi di melodie micidiali e chitarre al vetriolo. Da standing ovation.
Pubblico delle grandi occasioni (gente addirittura arrampicata sugli alberi) per il concerto di Edward Sharpe & The Magnetic Zeros. Una gigantografia alle spalle della band ritrae il disegno di una tranquilla strada di campagna che, in contrasto con i grattacieli che svettano tutt’intorno, crea un effetto straniante. Effetto che non fa che aumentare quando questa banda di hippies fuori tempo massimo inizia a suonare: la loro musica è un miscuglio allegramente caotico di riferimenti country e puro pop 60’s (à la Mamas & Papas). L’approccio del gruppo, abbinato al numero di elementi sul palco, ricorda molto da vicino quello di formazioni come I’m From Barcelona o Poliphonic Spree. Ma mancano le melodie accattivanti dei primi e la dolce psichedelia e la qualità tecnica dei secondi. Le canzoni, seppur melense e alla lunga ripetitive, esaltano il pubblico, coinvolto in tutti i modi possibili dal frontman della band (che non si fa pregare a scendere dal palco per cantare in mezzo ai fan). Li trovo piuttosto stucchevoli, ma il successo che riscuotono è davvero notevole.
Più elettrizzanti i Cut Copy, che attaccano con due pezzi dal ritornello killer come “Lights and Music” e “Feel the Love” e fanno ballare praticamente tutti. Sono fighetti in maniera quasi irritante, la loro musica è carina ma mai veramente graffiante, ma hanno canzoni a presa rapida e quindi sono la band “da festival” perfetta. Il pubblico, purtroppo, si raffredda un po’ su brani come la nuova “Where I am going”, in cui la vena electro-wave del gruppo lascia spazio ad interessanti rimandi al pop-rock 60’s di scuola Kinks, mostrando un aspetto della band meno scontato e prevedibile. Archiviati i Cut Copy, il pubblico nell’area nord del parco è tutto per i Phoenix (dal lato opposto, sul palco principale, stanno per suonare i Green Day).
E qui arriva la prima sorpresa (per me, perlomeno): i Phoenix da queste parti sono famosi, ma tanto! In verità un po’ si meraviglia lo stesso front man della band, Thomas Mars, visivamente emozionato, che dal palco ringrazia il pubblico a ripetizione e si lascia scappare un “non abbiamo mai suonato davanti a tanta gente”.
A prescindere che sia vero o si tratti di semplice ruffianeria, è davvero impressionante l’accogliente del popolo del Lollapalooza, sia come numero, sia come calore e coinvolgimento (la stragrande maggioranza delle persone canta tutti i testi a memoria!). Dal canto suo il gruppo ce la mette tutta per ripagare tanto affetto, e ci riesce alla grande. Una scaletta perfetta, che pesca soprattutto dall’ultimo, fortunatissimo “Wolfgang Amadeus Phoenix”, con un inizio bruciante come “Lisztomania”, insospettabili cavalcate soniche alternate a momenti super-cool come “Fences”, canzoni incredibilmente trascinanti (“Rome”), piccole chicche (la cover di “Playground Love” degli Air tra i bis), e momenti di delirio collettivo con singoloni come la celeberrima “If I Ever Feel Better”. Un finale davvero scoppiettante per una giornata piuttosto avara di emozioni.
Il terzo giorno inizio la mia giornata di festival con una Erykah Badu in stato di grazia. La signora del soul contemporaneo (che oggi sfoggia un’altissima cresta biondo platino) si presenta sul palco dopo un lunghissimo intro strumentale della band, e già dalle prime strofe di “20 feet tall” incanta tutti i presenti con la sua voce incantevole. Uno show di rara eleganza ed energia, in cui la Badu dialoga col pubblico, racconta aneddoti, tiene il palco in maniera straordinaria. Peccato solo che il sole sia ancora altissimo e faccia un caldo disumano. Un inizio di giornata decisamente positivo, in ogni caso, sudore a parte.
Cerco un posto all’ombra e lascio che a sudare – e parecchio, anche – siano i Wolfmather, sul palco principale, che si dimenano un bel po’ cercando di compensare con la presenza scenica una proposta musicale che conferma il loro status di band hard-rock epigona degli Zeppelin, ma senza riff e canzoni particolarmente memorabili in repertorio, a parte rari casi. Il loro show è in fin dei conti trascurabile, ma da parte loro la buona volontà di far bella figura c’è tutta.
Decido di mettere a dura prova la mia resistenza fisica, facendo un “salto” dall’altra parte dell’area festival, dove i MGMT ce la mettono tutta (o quasi) a coinvolgere il pubblico sfoggiando il proprio lato più soft-psichedelico (se solo il cantante si sforzasse a fare qualcosa di più simile al cantare, piuttosto che mormorare nel microfono, potrebbe essere un buon inizio), ma poi l’esaltazione collettiva arriva solo per quei singoli memorabili che sono “Time to pretend” e “Kids”, che raccolgono le meritate ovazioni.
Torno nuovamente, ignorando delle maledizioni dei miei piedi, nella zona sud del palco, e trovo che l’aria sia decisamente più “profumata” di prima.
Il motivo si chiama Cypress Hill, protagonisti di uno show essenziale (sul palco solo i due mc, un dj e un percussionista) quando devastante. B-Real e Sen Dog sciorinano rime come fiumi in piena su beat che ancora oggi, ad anni di distanza dalla loro creazione, suonano freschi e innovativi. In scaletta dei super classici come “Hits From the Bong” (con tanto di accensione sul palco di un bong gigantesco), “How I Could Just Kill a Man” e “Insane in the Brain”, che fanno letteralmente impazzire la folla. Ma risultano incredibilmente incisive anche “Vato”, incisa originariamente da Snoop Doggy Dog con B-Real come guest, “Rise Up”, dall’omonimo album di recente pubblicazione, con il campionamento della chitarra di Tom Morello dei Rage Against The Machine (che figura come guest del disco) e la conclusiva “Superstar”, che mette il sigillo su uno spettacolo memorabile.
Mi sposto nuovamente dall’altra parte del parco, cambiando anche radicalmente universo sonoro, per lo show di una delle band più attese del festival, gli Arcade Fire. Diciamolo subito: il loro è il concerto più emozionante dell’intero festival. Una band in stato di grazia, che ancora una volta dimostra di essere capace di performance incredibilmente intense, e di creare una empatia con i fan che ha qualcosa di semplicemente magico. Dai Talking Heads a Bruce Springsteen, i loro riferimenti sono chiari, eppure il suono “à la Arcade Fire”, drammatico ma anche incredibilmente diretto ed emotivo, è ormai qualcosa di distinguibile tra migliaia di band, e l’attitudine assolutamente “fisica”, viscerale e solo apparentemente caotica che il gruppo ha sul palco appare ogni volta spontanea e genuina.
I pezzi di “Funeral” sono quelli che, come prevedibile, scuotono maggiormente il pubblico incredibilmente numeroso (nonostante i Soundgarden in “concorrenza”), rendendo un semplice concerto un rito collettivo: la tensione di “Neighborhood #2” sembra attraversare ogni singolo corpo ammassato davanti al palco, “Haiti”, che nella versione in studio è una delle loro canzoni più dolci, è suonata con rabbia, con Regine che urla disperata, “Rebellion (Lies)” è semplicemente catartica,
“Wake Up”, posta a fine scaletta, è la ciliegina sulla torta: l’eco del coro del pubblico è così potente che sembra la stesse cantando tutta Chicago. Non sfigurano nemmeno quelli estratti da “Neon Bible”: la drammatica “Intervention” è semplicemente da brividi, “Keep The Car Running” va smuovere i culi di tutte le migliaia di persone davanti al palco. La splendida ballad “The Suburbs”, tratta invece dal nuovissimo, omonimo album della band, la ascolto per la primissima volta e già mi sembra un classico; stesso discorso per “Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)”, altro pezzo nuovo di zecca, dal curioso sapore dance-pop 80’s, in cui Regine sembra trasformarsi in una moderna Debbie Harry. Uno di quei concerti, in definitiva, che ti fanno tornare a casa contento anche se distrutto, e consapevole, più che mai, di aver riservato, per la propria anima, la dannazione eterna.
Autore: Daniele Lama
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