Radio America è un film country.
È un film intriso di una certa cultura tipicamente americana che fortunatamente, in più di sessantant’anni di regime (culturale), non c’è stata ancora inculcata.
È un film corale, à la Altman hanno scritto in molti (a quanto pare la coralità è un leitmotiv della sua opera: in Nashville erano ben 24 i protagonisti del film, qui tutta una troupe radiofonica).
È un lavoro goffo, sconclusionato, eppure esaltato dalla stampa (certa critica intontita è ancora riverente verso la politica degli autori che di fatto castra le potenzialità del cinema mondiale) e salvato dalla presenza di un ottimo cast e nella versione italiana da un buon doppiaggio che ha reso fruibile un’opera a tratti indigeribile.
Un bla bla bla continuo, spesso fastidioso, che nulla ha a che fare col calore delle trasmissioni radiofoniche. Un melting pot di generi e di dimensioni temporali miscelate seguendo un filo chiaro (evidentemente) solo allo sceneggiatore e ai critici che hanno esaltato il film.
Scritto da Garrison Keillor, autentico conduttore del programma radiofonico riportato in scena —“A Prairie Home Companion”, (trasmissione radiofonica “on air” da più di 35 anni – ogni sabato pomeriggio dalle 17 alle 19 – e seguita da circa 35 milioni di famiglie americane) — che nella versione originale, dà il nome al film.
Un vero e proprio cult riportato nella versione cinematografica seguendo pedissequamente la struttura dell’originale radiofonico: un susseguirsi di canzoni in diretta, siparietti comici e falsi spot pubblicitari.
In diretta dal Fitzgerald Theatre di St. Paul, Minnesota, Radio America ovvero, Video kills a prairie home companion (tanto per parafrasare) è la storia di una morte; di un decesso senza agonia; di un’epoca passata, cementificata negli anni — come una piccola comunità yiddish, sempre uguale a sè stessa — eppure costretta a cedere il passo all’impero del “nuovo” (un museo a quanto pare). L’epoca o meglio le epoche che tengono in vita la trasmissione, sono ormai risucchiate dal turbinio del presente, mai uguale a sé stesso, privo di un’identità riconoscibile.
Appartengono al passato e sono improponibili nella new age.
Eppure Altman gioca con i decenni e con i generi passando dal noir degli anni ’40 impersonati da un chandleriano Kevin Kline (alias Guy Noir che ci accoglie ad inizio film uscendo da un bar notturno dall’aria hopperiana — il riferimento a Nighthawks è fin troppo scontato) e da un’incomprensibile dark lady (Virginia Madsen) all’occasione anche angelo della morte e dell’annunciazione (della morte); agli anni ’50 dei microfoni zigrinati a patata che sostengono le canzoncine mielose in salsa country delle sorelle Rhonda e Yolanda Johnson (interpretate da Meryl Streep e Lili Tomlin); passando per i “bad jokes” della sfacciata coppia di cowboys Dusty e Lefty alias Woody Harrelson e John C. Reilly, fino ai seventy di una calda black voice magari non proprio funky ma dall’aria very cool e degenerando fino agli anni ’90 e perché no? anche fino a questo nuovo millennio seguendo le litanie della classica ragazzina filo-suicida con incluso, l’indispensabile quaderno con le canzoni-poesia a tema. In questa baraonda di personaggi si celebra l’atto conclusivo del programma: the show dopo anni di pubblico servizio, non può più andare avanti.
Lascia il posto al ricordo del pubblico, e degli showman privati della loro aura deiforme e condannati finalmente, ad una vita mortale.
Autore: Michela Aprea