Gioia e partecipazione per un evento che ormai è diventato appuntamento fisso dell’estate campana. Da piccoli locali vecchio stile ad un grande parco alle porte della città, un’oasi inaspettata a pochi metri dall’autostrada. In 14 anni il Pomigliano Jazz ne ha fatta di strada con un pubblico che ha saputo apprezzare e godere della musica di qualità in modo gratuito, due categorie che molto spesso non coincidono, ma che invece sono i due perni di questa manifestazione.
E anche quest’anno la quattro giorni di jazz non delude: un programma denso di artisti di primo livello, italiani e stranieri, che ben si presta all’idea del festival, quella cioè di circumnavigare il globo. Una folta schiera di personaggi per tre concerti ogni sera, due sul palco principale, uno nell’invaso del Parco Urbano a tarda sera in uno scenario incantevole dovuto alla location più piccola e alla conseguente atmosfera più conviviale.
Scelte estremamente raffinate in una stagione probabilmente crocevia per le sorti della manifestazione, talvolta soluzioni artistiche difficili e di grande ricercatezza, tali da sublimare il gusto dei numerosi intenditori disposti a muoversi anche da molto lontano per esserci, ma che probabilmente ha creato spesso un senso di distonia nell’ancor più numerosa “zona grigia” dei curiosi, dei vogliosi di frescura estiva, dei simpatizzanti del genere, che popola il Parco, uno dei rari esempi reali di spazio al servizio di una comunità: tanto verde (la cosa è particolarmente importante perché siamo nel cuore di un polo industriale e nella “corona di spine della periferia napoletana) e pochi fronzoli.
Prima esibizione in assoluto affidata al collaudato sax di Marco Zurzolo ed il suo sestetto, i “Migranti” presentati nel suo progetto musicale (edito per Itinera, l’etichetta del Pomigliano Jazz) sono i poveri del mondo, gli immigrati di oggi mandati al macello da leggi fasciste, i napoletani di ieri, costretti a bussare alle porte del mondo con le loro storie e le proprie sonorità. Il sax di Zurzolo sottolinea tutto questo in modo talvolta struggente, ed altre volte spensierato e liberatorio. Ma il Giovedì è stato soprattutto la serata del maestro Enrico Rava, col suo New Quintet, che ispirandosi alle pirotecniche formazioni del grande Miles Davis e contemporaneamente assecondando la propria fama di talent scout, intesse un gioco di equilibri con l’eclettico Gianluca Petrella al trombone, di straordinario impatto, ma soprattutto formalmente superiore: La tromba di Rava si stacca da un proscenio vibrante di ottoni e dalle soluzioni ritmiche eccellenti, come elemento spaziale. Autentica sorpresa della serata nu-jazz scandinavo del Sonic Codex quartet di Eivind Aarset, sperimentale, vitalissimo, apprezzatissimo.
Venerdì la serata è estremamente composita, in quanto spazia dal delicato lirismo del pianista Stefano Battaglia in trio con Salvatore Maiori e Roberto Dani, a Mario Raja con il progetto Big Bang, all’omaggio tutto elettronico ad un capolavoro del passato per i suoi 40 anni: “A Silent Way” di Miles Davis. E’ il compito Martux_M all’elettronica e Fabrizio Bosso alla tromba (accompagnati da Francesco Bearzatti, Eivind Aarset e Aldo Vigorito) ricreare quell’amalgama di acustica ed elettronica tra improvvisazione e produzione con cui i mondi del jazz e della contemporanea si sono dovuti confrontare. Ne emerge un lavoro affascinante e multiforme che prende spunto dalle soluzioni estetiche di Davis per svilupparsi seguendo le linee contemporanee di post-produzione, con un inaspettato ma gradevole ammiccamento agli universi della dance.
Sabato la serata tocca il punto massimo in quanto a qualità e misticismo per quest’edizione del festival, il Chamber Trio di William Parker, bassista amato e rispettato con Eri Yamamoto e Leena Conquest, è una formazione atipica, senza batteria, di grande eleganza, ancora più efficace quando in coda all’esibizione il grande Don Moye, ormai presenza fissa del festival accompagna il trio in territori impro-afro. Ancor più atipico si rivelerà il set di Anthony Braxton col Diamond Curtain Wall Trio (Taylor Ho Bynum – Mary Halverson). Infatti il trio, anch’esso senza batteria, si inarca in territori che non è eccessivo definire metafisici: fraseggi strettissimi di sax e tromba alternati sghembi da una chitarra di stampo impro-noise si susseguono senza soluzione di continuità, dando vita ad una stratificazione di profondità impressionante ma che dilatata nel tempo, nonostante un salutare eclettismo timbrico e strumentale dei tre, deterritorializza completamente l’ascolto. Sicuramente croce e delizia del festival, quasi irritante nella sua integrità, probabilmente fuori contesto, tant’è che a scaldare i cuori, poco dopo ci penserà il colorato samba dell’Orquestra Imperial, ensemble che racchiude alcuni tra i più rappresentativi musicisti brasiliani: Moreno Veloso (figlio del grande Caetano), Kassin, Domenico Lancelotti, Wilson Das Neves, Berna Ceppas, Nina Beker e Rodrigo Amarante, e che suona caldissimo.
Festa finale di chiusura con la collaudata Orchestra Napoletana di Jazz, grande successo l’anno scorso, con le performances vocali di Raiss, le ritmiche di Capone e Don Moye, il leggendario Joe Lovano, e la sapienza di alcuni tra i migliori jazzisti campani.
Autore: Pasquale Napolitano
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