Sono più di venticinque anni che i Depeche Mode ci tengono compagnia. Quella “Photographic” concessa nei bis finali, quasi chiudeva un cerchio. Un loro pezzo “storico” ripescato direttamente dagli anni ’80, epoca in cui i nostri erano alla ricerca di una definitiva identità. Il tempo ha poi dato loro ragione, facendoli diventare una delle “nuove” entrate nel circo delle “vecchie” glorie. Una band che rivaleggia appena un gradino sotto ad icone del calibro di U2 o Red Hot Chili Peppers, tanto per rendere l’idea. Il colpo d’occhio che offriva lo stadio Olimpico era, quindi, quello delle grandi occasioni. L’happening tipico degli eventi in cui la folla celebra se stessa e chi le sta di fronte su di un palco. Del clima “festaiolo”ne hanno beneficiato anche gli Scarling, misconosciuto combo statunitense di indie-rockers ancora in erba ed opening act della serata. A scaldare gli animi, però, ci hanno pensato i Franz Ferdinand. Nei tre quarti d’ora loro concessi hanno fatto sobbalzare varie volte gli astanti, specie con i pezzi del primo album. Rispetto ad allora sembrano la solita macchina da guerra che dal vivo spacca grazie pure al contributo esterno di due musicisti aggiunti che si alternano ai vari strumenti insieme al resto del gruppo. Una buona prova che non chiarisce, comunque, quanto si possa evolvere il loro sound. I protagonisti della serata, entrano in scena alle 21.30 spaccate. Si parte a razzo con la doppietta “A Pain That I’m Used To” e “A Question Of Time”. Raccogliere applausi dai fans è un gioco da ragazzi per il frontman Dave Gahan, visto che gioca praticamente “in casa” (essendo il luogo del concerto uno stadio, la metafora risulta decisamente appropriata…).
I suoi usuali atteggiamenti da consumato performer trascinano la folla verso territori più quieti tra un’incerta interpretazione vocale di “Precious” ed una acclamatissima “Stripped“. A questo punto al centro della scena sale Martin Gore che esegue un paio di brani, tra cui una ” It Doesn’t Matter Two” rivisitata in chiave desert-rock (al basso elettrico, solo in questo pezzo, si è cimentato Peter Gordeno, il tastierista che segue da anni i DM dal vivo), a conferma che ormai il trio britannico non è più un gruppo elettronico tout-court.
Tanto è vero che anche a Roma avevano un batterista in carne ed ossa, Christian Eigner, collaboratore esterno di lungo corso della band. Chi, al contrario, sembrava capitato lì per caso era Andy Fletcher, il terzo membro fondatore dei Depeche Mode. E’ notorio che il suo ruolo all’interno della formazione sia relegato, fondamentalmente, agli aspetti manageriali. I suoi minimali interventi alle tastiere, infatti, erano lungamente intervallati da saluti al pubblico e dalla scelta di quali simpatiche donzelle portarsi nel backstage per l’aftershow….Ciò, comunque, poco ha influito sulla buona riuscita della loro esibizione. Potendo contare su di un repertorio quanto mai vasto e su di una professionalità di lungo corso, Gahan e soci hanno continuato a sciorinare i loro classici(“I Feel You”, “Behind The Wheel”
“World In My Eyes”), finendo con un’apoteosi allorquando alle note di “Personal Jesus” si sono succedute quelle di “Enjoy The Silence“. Dopo la solita finta ritirata d’ordinanza Gore si è impegnato in un’intensa “Shake The Disease” per solo pianoforte. La già citata “Photographic” e la conclusiva “Never Let Me Down Again” portavano a termine degnamente il concerto. Come scherzosamente dichiarò Andy Fletcher qualche mese fa, i Depeche Mode si avviano a diventare i nuovi Rolling Stones della loro generazione (a livello di anzianità di servizio, of course…). Inutile, allora, aspettarsi novità epocali o fuori programma inaspettati. Tutto è filato via secondo copione del verbo “depechemodiano”, quasi si fosse assistito ad uno di quei film hollywoodiani dallo scontato “happy-end”…
Autore: LucaMauro Assante
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