A che punto siamo con la musica “bizzarra”? Ha senso provare a lanciare un’etichetta del genere (e se sì, facciamo i fichi e diciamo, piuttosto, “bizarre music”)? Detta così, sembrerebbe una facile scorciatoia per liquidare in fretta qualcosa che di musica non ha proprio tutte le sembianze e tornare di corsa a riff refrain frontman e tutta l’iconografia sacra e intoccabile del “rock”. Sì, può darsi che utilizzeremmo anche toni elogiativi, ma saremmo pur sempre sbrigativi.
Altrimenti possiamo trovare un complicato compromesso: tenerci l’etichetta (perché se è azzeccata, oh, che ci si può fare?) ma senza strumentalizzarla per economizzare sulle parole. Mi sembra giusto. Ed è proprio Jeremy Barnes, aka A Hawk and a Hacksaw, a darmi questo valido spunto. E già prima di metterlo nel lettore ci sarebbe di che riflettere, pregustare, caricare la batteria delle aspettative. Barnes è stato batterista dei Neutral Milk Hotel. Il disco porta sì il marchio Leaf, ma in Europa, laddove negli States, terra di prima pubblicazione, è uscito per Cloud (ok, non siete preparati – è l’etichetta di alcuni ex componenti degli Olivia Tremor Control). E se ciò non è sufficiente, sappiate che il disco è stato concepito, scritto e registrato nella vecchia Europa. In Francia, nella rigogliosa campagna della Loira, ma con un sacco di altri luoghi, fisici e ideali, in testa.
Teatro. Circo. Quante volte la musica ha avuto bisogno di loro, e viceversa? E, a voler essere ancor più drastici (anticipo: su questo tasto batto a strafottere), che cos’è la performance-art, un clown, un giocoliere, una fase non recitata di una piece teatrale, senza l’animazione (nel senso etimologico, da “anima”, badate) della musica? Che, secondo il pur sempre valido principio dell’accostamento, ha da riprodurre, anziché contrastare, quello che è il mood, l’atmosfera dello spettacolo sottostante.
A Hawk and a Hacksaw è Francia, Germania, Mitteleuropa, ma diverse da come avremmo potuto mai vederle coi nostri occhi. E’ un luogo ideale dello spirito, del sentire, della creatività. Un luogo in cui un funerale è una baldoria (lasciate perdere Bregovic, però) in cui il morto viene accompagnato a miglior vita, quindi in maniera gioiosa e disordinatamente scanzonata, intonando cori senza capo né coda né testo, in mezzo ad animali da cortile e rumori “concreti”. Un luogo in cui la parola non esiste, come in una vecchia pellicola muta, e gli unici “sottotitoli” possibili per narrare ciò che accade sono una frenetica corsa sulla scalcinata tastiera di un piano, un brusio sommessamente insistente che sovrasta una cantilena di casio, un’orchestrina che ricicla oggetti della quotidianità e “incorda” un contrabbasso con dei lacci per realizzare il proprio campionario sonoro, una tromba arrugginita che libra nell’aria il canto della persona, una fisarmonica che asseconda e guida, in una confusione di causa ed effetto, la dinamica dei movimenti, un campanello e altre percussioni “casuali” che tengono il ritmo senza però creare alcuna scansione cronologica. Il tempo è sospeso, ora e per sempre.
E tutto ciò accade in un frenetico continuum, ininterrotta sarabanda che assurge a paradigma dell’esistenza, scomposto abito multicolore che veste, con dignitosa povertà, l’inestimabile ricchezza di un tesoro creativo libero di viaggiare nello spazio e nel tempo, fino alla culminante title-track, unico episodio cantato, con cui quest’immaginaria orchestra sembra trascinare a sé, in un lento e struggente corteo, tutto ciò che l’ha preceduta, nani, giocolieri, clown, ballerine, per svanire, lentamente, nelle pieghe della nostra fantasia. E hanno ragione, Barnes o quelli alla Cloud non importa: “headphones are recommended for this recording”. O, davvero, non coglierete che la metà della metà di tutto ciò…
Autore: Bob Villani